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Recessione, chiusura all'Ue e mancanza di diritti: ecco perchè il sovranismo di Erdogan sta fallendo

di Costanza Hermanin

Domenica la Turchia si è riavvicinata all’Europa, con il successo dei laici nelle sue tre maggiori città: Istanbul, Ankara e Izmir (Smirne).  Lo ha fatto contemporaneamente alla Repubblica Slovacca, dove Zuzana Caputova, europeista, ha trionfato come presidente con il 58% dei voti. 

Non si tratta solo di un risultato di elezioni amministrative: le tre città ospitano quasi un quarto tra gli 80 milioni di turchi. Tra queste, la più europea delle città turche, Istanbul, è stata nelle mani di Erdogan dal 1994, quando egli stesso fu eletto sindaco. Anche nel resto del paese il partito del Presidente, l’AKP, che a lungo si è basato sul consenso nelle campagne, ha faticato a mantenersi maggioritario.

La disfatta del sultano Erdogan deriva da un vizio sempre più diffuso tra i leader populisti: impostare la politica di crescita sul debito. Lo scorso anno la crisi della lira turca e due trimestri in negativo hanno finalmente svelato tutti rischi di una strategia del genere, quella che anche i populisti nostrani vorrebbero venderci: la recessione. 

Si aggiungono la bolla edilizia, la disoccupazione giovanile ai massimi livelli dopo anni di politiche per incentivare la natalità tra i turchi, una crisi del credito interno e delle esportazioni, conseguenza del rallentamento a livello globale.  Questi i complici della disfatta di Erdogan: perché erano le stampelle fragili con cui lui e l’AKP hanno tenuto in piedi per quindici anni un governo reazionario, che ha piegato la Turchia, paese laico, verso la chiusura, l’islam di Stato, la repressione delle donne, della stampa, dei dissidenti, di magistrati e avvocati. Un governo che ha fatto perdere ai turchi l’apertura all’Europa, che proprio quindici anni fa iniziava con la Turchia i negoziati per l’adesione. Un tempo che sembra ormai lontanissimo,  adesso che il sultano ha trascinato il paese sempre più verso un regime autoritario.

Rimane un paese impoverito, nei diritti e nelle libertà ancor più che nelle tasche. Un rischio che corrono anche alcuni paesi europei dell’est, per non citarne: Polonia e Ungheria, dove governi illiberali mantengono il consenso grazie a un successo economico di cui non sono gli artefici e designando “nemici esterni”. La stessa cosa che ha fatto Erdogan negli anni passati.

Adesso tocca all’Europa sostenere il risultato democratico delle elezioni locali, che già il governo tenta di mettere in discussione. Perché una Turchia democratica è un baluardo anche per l’Unione europea. 

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