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Produttività e diseguaglianze sociali

Di Leopoldo Papi

Un problema che potrebbe essere di interesse approfondire è il rapporto tra diseguaglianze generazionali (e diseguaglianze sociali in generale) e produttività italiana stagnante da 20 anni.

La produttività è una metrica importante per comprendere i problemi economici, perché indica l’efficienza di un’impresa o di una comunità economica di creare “valore aggiunto”, cioè ricchezza, eliminando il lavoro inutile e superfluo, e sostituendo il capitale ormai obsoleto. Misura altresì la capacità di competere, e quella di innovare. Senza innovazione tecnologica (cioè innovazione nel capitale), competenze, creatività e ingegno, non si risolvono problemi produttivi, e non si crea la ricchezza di cui poi beneficia la comunità.

Quello della produttività appare sempre più un criterio utile anche per l'analisi sociale, qualora si provi a esaminare il contributo individuale delle persone alla produttività totale dell'economia italiana e alla sua competitività con altre economie. In parte è l’approccio seguito da Luca Ricolfi nel libro "La società signorile di massa", in cui l’autore evidenzia come, di fatto, ormai in Italia un maggioranza improduttiva (neet, categorie corporative protette, rentier di  vario genere) mantenga un tenore di vita benestante consumando risparmi accumulati in passato, e a spese di una minoranza produttiva che si riduce sempre di più.

Applicando il criterio della produttività vengono meno, peraltro, alcune contrapposizioni tra gruppi sociali astratti, spesso comunemente utilizzate nel dibattito pubblico sui problemi sociali, per quanto definite in base a criteri a ben guardare arbitrari: ad esempio appunto la contrapposizione tra generazioni, o in base all’origine.

Appare poco sensato, ad esempio, parlare di diseguaglianze generazionali, se si guarda alla produttività individuale. Ci sono imprenditori e scienziati ultrasettantenni capaci di portare ancora un notevole contributo al valore aggiunto, a fronte di giovani privi di competenze e capacità, che rappresentano un costo sociale, e sono spesso fuori tempo massimo per ricevere una formazione adeguata a contribuire alla creazione di valore. Per contro i giovani produttivi, a differenza degli anziani (che non si muovono più all'estero, data l'età) spesso scelgono di emigrare e cercare opportunità all'estero (si parla di circa 100mila persone l’anno). Dal punto di vista della produttività, dunque più che di diseguaglianze generazionali bisognerebbe porsi il problema della qualità del “capitale umano” a disposizione della comunità, in termini di competenze, esperienza, capacità di assumersi responsabilità e contribuire alla creazione di valore.

Un discorso analogo può essere fatto per quanto riguarda i cittadini di origine straniera: il problema non sono gli stranieri o i migranti, ma le persone improduttive e prive di competenze e che rappresentano un costo sociale, a prescindere dal luogo di origine che sia Lombardia o Calabria, Olanda o Africa subsahariana. Da questo punto di vista, occorrerebbe riflettere pragmaticamente sul problema di un contesto  incapace di generare una immigrazione capace di contribuire alla competitività dell’economia italiana, attraendo spontaneamente competenze (e aziende e investimenti). La scarsa produttività è forse così all’origine di diseguaglianze sempre più ampie tra titolari di rendite che tendono a organizzarsi in forme di “incastellamento”, e persone che rappresentano costi sociali sempre più alti, perché improduttive, a prescindere dal fatto che si tratti di italiani o stranieri.

La riduzione delle diseguaglianze - di ogni diseguaglianza - dovrebbe pertanto passare per politiche pubbliche mirate a migliorare la competitività del “sistema Italia”: servizi e infrastrutture efficienti, una riforma profonda del sistema giudiziario, oggi ingiusto, arbitrario e malfunzionante, un fisco più ragionevole ed equo, liberalizzazioni, una generale “abolizione di rendite”, centri di potere e apparati corporativi, clientelari, e autoreferenziali, da quelli dell’amministrazione pubblica, alle società partecipate, ai vari settori e soggetti economici, spesso anche privati, in un modo o nell’altro protetti e garantiti dalla politica o gestiti secondo logiche politiche e “parapubbliche”.

Infine il problema dei problemi del debito pubblico: se la produttività ristagna o è negativa, a fronte di un debito in crescita,  il rischio è di mettere una pietra tombale sul futuro di tutti. Tale situazione è di fatto un default silenzioso, data l'incapacità strutturale di ripagare il debito dello Stato. Chi ha risparmi finisce così per consumarli fin che vive, chi non ne ha ed è produttivo scappa all'estero, chi è improduttivo e non ha capacità, ma molta frustrazione, facilmente finisce per cadere vittima del richiamo populista di Salvini o del Movimento 5 Stelle, che gli promettono redditi di cittadinanza e riscatto psicologico settario o identitario.

 

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