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Perché questo non è un paese per giovani

Di Lorenzo Borga

La spesa pensionistica in Italia è aumentata e ha raggiunto uno dei livelli più alti dell’area Ocse. Aumentano reddito e ricchezza per gli over 64 ma si contraggono per figli e nipoti. Nell’indifferenza dei governi. 

Gli “invisibili” si sono fatti chiamare, in occasione delle proteste dei mesi scorsi contro una legge di bilancio che – a loro dire – li vedrebbe svantaggiati: parliamo dei pensionati. Incredibilmente, perché in Italia gli ultra 65enni godono di una condizione economica che è molto migliorata nel tempo e di anni di politiche a loro favore, o di chi in pensione ci sta andando.

Come ha descritto Luciano Capone su queste pagine (Il Foglio di giovedì 16 gennaio) i pensionati risultano sì “invisibili”, ma nel senso che il loro reale livello di benessere non è percepito dal dibattito pubblico. La spesa pensionistica è ulteriormente aumentata e ha raggiunto uno dei livelli più alti dell’area Ocse. Nel 2018, secondo l’Istat, l’importo medio delle pensioni risultava aumentato del 70 per cento rispetto al 2000, mentre gli stipendi hanno raggiunto una crescita dimezzata, del 35 per cento (grafico). Si tratta di incrementi del livello nominale, cioè senza tener conto dell’inflazione. Questo significa che se gli stipendi hanno appena tenuto il passo dell’aumento dei prezzi, cresciuti nello stesso periodo di poco più di un terzo secondo l’istituto di statistica nazionale, le pensioni sono state invece incrementate a livello reale, in anni – non c’è bisogno di ricordarlo – di forte crisi. E ancora, secondo la Banca d’Italia reddito e ricchezza sono cresciuti del 15 e del 60 per cento per gli over 64 mentre i giovani li hanno visti contrarsi rispettivamente del 10 e del 60.

Eppure i governi italiani non si concentrano sulle nuove generazioni. Anche il recente mini-taglio del cuneo fiscale è stato distribuito alla più ampia platea possibile di beneficiari – 16 milioni di persone – mentre non si è deciso di intervenire con forza sui più giovani. Ad esempio, sul piatto si sarebbe potuto mettere la stabilizzazione del bonus introdotto dal governo di Paolo Gentiloni per le assunzioni a tempo indeterminato dei giovani dipendenti, che è rimasto invece magro. Il governo Renzi allargò la quattordicesima nel 2016, un bonus per le pensioni più basse che però non tiene conto del reddito dell’eventuale coniuge. Il governo Gentiloni tentennò parecchio nel 2017 di fronte all’innalzamento automatico dell’età pensionabile per adeguarlo alla crescita dell’aspettativa di vita. E il primo governo Conte sappiamo bene cosa ha combinato sul lato previdenziale, mandando all’aria miliardi di euro con Quota100 alla ricerca di un improbabile ricambio generazionale sul lavoro, che infatti molto probabilmente non si è verificato (nemmeno le grandi aziende pubbliche hanno usufruito dei prepensionamenti per assumere più giovani di quanti siano stati i nuovi pensionati, come eppure avevano promesso Di Maio, Salvini e Conte).

La condizione dei più giovani in Italia, rispetto a quella dei loro genitori, è peggiorata anche secondo gli studi della Fondazione Visentin. Ogni anno i suoi ricercatori pubblicano un rapporto sull’equità intergenerazionale, misurata attraverso una serie di indicatori. L’indice sintetico che ne deriva è peggiorato rispetto al 2004 del 28 per cento, per via soprattutto della disuguaglianza di reddito, delle prospettive pensionistiche, del debito pubblico e della ridotta accumulazione di capitale umano. Ma le soluzioni stentano, o – peggio ancora – rischiano di peggiorare la situazione. Secondo un sondaggio condotto in tutta Europa, il 70 per cento dei cittadini intervistati ritiene che non bisognerebbe aumentare l’età di pensionamento, anche a fronte dell’allungamento della prospettiva di vita. In Italia siamo un po’ più saggi: “solo” il 60 per cento è d’accordo con la tesi dominante, forse per via dell’enorme peso di spesa e debito pubblici a cui ci stiamo legando per pagare le pensioni dei prossimi decenni. Perché sì, in Europa non siamo i soli ad avere qualche problemino con l’equità tra generazioni, in particolare sulle pensioni. Ne sa qualcosa la Francia, in cui da settimane divampa uno scontro tra sindacati e governo su una riforma del sistema pensionistico, che oggi prevede alcuni privilegi inspiegabili e permette ai francesi di andare in pensione perfino prima degli italiani secondo i dati dell’Ocse. Ma in Italia manteniamo un primato: abbiamo un dibattito pubblico che – in gran parte – se ne frega dei giovani e del loro benessere. I sindacati di certo: più del 50 per cento degli iscritti di Cgil e Cisl figura essere pensionato. I governi, spesso, pure come l’esperienza ha dimostrato. I talk show anche: la televisione è rimasto a guardarla soprattutto chi ha più di 45 anni. La condizione non è molto diversa per chi si informa tramite i giornali, a dire il vero.

Non soddisfatti della propria condizione, alcuni giovani fanno da sé. I ragazzi in piazza per il futuro climatico del pianeta – pur con alcune note stonate, ma con grandi meriti di aver posto l’attenzione su un tema cruciale – li rappresentano. E anche le sardine, nonostante nelle loro piazze i capelli bianchi siano andati aumentando. Ma sarebbe cinico non citare anche chi, nel suo piccolo, si batte per questa battaglia in Parlamento. Più Europa ha organizzato nei mesi scorsi una raccolta firme per inserire il principio di equità intergenerazionale in Costituzione, e anche ieri in un evento a Bologna ha ribadito la propria posizione: serve un contratto sociale più sostenibile tra le generazioni. In attesa che anche i partiti a doppia cifra se ne accorgano e agiscano di conseguenza.


Pubblicato su
 Il Foglio20 gennaio 2020

Foto: LaPresse

 

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