Di Nico Di Florio
Tanta rabbia, ma anche tristezza umana, nei confronti di coloro che tentano di guadagnare (o recuperare) percentuali politiche alimentando una retorica spacca popolo come quella secondo cui le chiusure selettive avrebbero portato alla creazione di lavoratori di serie A e lavoratori di serie B.
Nulla di nuovo, tanto ci si aspettava dalla Lega e tanto è arrivato.
Agli italiani andrebbe invece spiegato che qui si stanno giocando le sorti del paese. E la sensazione è che il rischio di scaricare sulla collettività decisioni assunte sulla scia dell’emotività si faccia sempre più concreto.
Dirò delle banalità ma forse è bene ricordare che la chiusura delle attività produttive, e quindi dell’industria primaria, in settori ad elevato tasso di esportazione può determinare la perdita di posizioni di mercato definitiva e quindi, a cascata, effetti devastanti sull’economia reale.
Il rischio, che non possiamo assolutamente permetterci, è di dare un segnale di incapacità produttiva definitivo.
Chi opera nell’export sa bene che il cliente straniero che acquista produzioni italiane in settori strategici quali la meccanica, l’automazione, ma anche nei settori del medicale e del farmaceutico, sarà portato a rivolgersi ai nostri concorrenti e quindi a validare altri fornitori con riduzione durevole della presenza italiana sui mercati internazionali.
Il nostro sistema, il primo a subire i contraccolpi dell’epidemia dopo quello cinese, è già sotto attacco da parte di concorrenti stranieri pronti ad approfittare della situazione, spesso le stesse aziende cinesi oggi riattivatesi a pieno regime dopo il rallentamento delle attività. Orbene, se si considera che l’export è il principale punto di forza della nostra economia - che per il resto ha pressoché soltanto punti di debolezza - allora si comprendono bene gli effetti potenzialmente nefasti che potrebbero ingenerarsi dallo spegnimento delle macchine nel già limitato comparto produttivo italiano.
Appare chiaro che una volta terminata l’emergenza sanitaria, e forse anche prima, tra le tante cose di cui occorrerà occuparsi ci sarà senz’altro la tutela del made in Italy.
Il made in Italy, lo sappiamo tutti, è quella componente immateriale che accompagna le produzioni italiane conferendogli valore aggiunto: è grazie al made in Italy che negli ultimi decenni il nostro paese è divenuto leader in una serie di settori centrali dell’economia globale. Il made in Italy, dunque, non è una semplice indicazione del paese di origine, ma un vero e proprio brand, un valore immateriale che conferisce un significativo vantaggio competitivo alle nostre merci.
Orbene, io mi preoccuperei molto delle sorti del brand Italia, poiché se è vero che viviamo in un contesto fatto di mercati globalizzati è altrettanto vero che pure la schizofrenia dei consumatori è globalizzata. Al riguardo, mi è parso molto indicativo, ed abbastanza sconcertante, quel recente sondaggio fatto negli Usa, secondo cui il 38% dei cittadini americani non avrebbe più intenzione di acquistare birra Corona, in quanto associata al virus, tant’è che lo sfortunato marchio, a sole due settimane dallo scoppio mediatico dell’epidemia, aveva già perso oltre 250 milioni di dollari.
Insomma dobbiamo assolutamente impedire che il virus venga identificato con il nostro paese perché la nostra immagine e, di conseguenza, le nostre produzioni potrebbero risultarne irrimediabilmente compromesse.
Non a caso la Cina ha intrapreso una forte campagna mediatica con l’ambizioso obiettivo di contrastare l’idea che il virus abbia origini cinesi e tutto questo attraverso dure prese di posizione a livello governativo in ogni parte del globo che hanno provocato veri e propri incidenti diplomatici come, ad esempio, con il governo australiano.
La propaganda cinese, con tutti i potenti mezzi di cui dispone, sta quindi sostenendo che il virus ha origini esogene e che loro sono stati semplicemente i primi, e guarda caso i più efficienti, a fronteggiare l’epidemia. A me pare evidente che si stia cercando di spostare la narrativa, perché, magari, ad un certo punto, se il virus non è cinese, nella opinione indefinita dei mercati potrebbe, perché no, diventare italiano.
A mio avviso è fondamentale che le autorità del nostro paese inizino a preoccuparsi seriamente di questo aspetto, che ad alcuni potrà sembrare secondario ma che in realtà è prioritario per la nostra economia. Il governo deve agire con iniziative mirate allo scopo di risollevare l’immagine del nostro paese e delle nostre produzioni poiché, all’indomani della crisi, le nostre merci resteranno le stesse ma non è detto che quel valore aggiunto in esse inglobato, costituito dal brand Italia, rimarrà intatto. Perché è chiaro che il Made in Italy è una componente essenziale delle produzioni italiane senza la quale le nostre esportazioni non riusciranno a mantenere i livelli sinora raggiunti.
Fossi nel governo mi concentrerei molto sull’individuazione di strategie utili a mitigare gli effetti immateriali di questa epidemia. È inspiegabile, o forse si spiega e come, l’improvvida retorica con cui il nostro governo, ed in particolare il Ministero degli Esteri, sta celebrando la donazione di qualche mascherina dalla Cina. Si tratta di una rappresentazione auto sminuente, immotivata ed autolesionista: perché se è vero che i cinesi stanno cercando di spostare la narrazione sulla nazionalità del virus allora rischiamo di essere proprio noi a fare in modo che ci riescano. I cinesi hanno dimostrato di conoscere molto bene, e molto meglio di noi, gli effetti immateriali dell’epidemia, ed hanno bisogno di togliere da sé l’immagine di nazione infetta.
A me pare che l’Italia, in questa insensata celebrazione di Pechino, si stia candidando al ruolo di utile idiota. La preoccupazione è che qualcuno dalle parti della Farnesina stia pensando che, in cambio di qualche mascherina, e chissà di quale altra utilità politica, il nostro paese debba accettare l’idea di intestarsi la nazionalità del virus. Sarebbe un disastro.