“La dimensione politica deve operare al fine di evitare che si crei una forte divaricazione fra sviluppo tecnologico e condizione umana, e deve ancorare lo sviluppo alla finalità di un maggiore benessere, premessa per una felicità fondata sui diritti umani allargati”
A cura di Paolo Costanzo, economista e autore del libro appena pubblicato da Bookabook “Italia al bivio”
Solo guardando ai diritti civili, sociali e ambientali si è in grado di misurare il grado di felicità, la distribuzione del benessere nella società e la sostenibilità nelle dimensioni sociali, economiche e ambientali. Non si ha crescita reale con un PIL in ascesa, cui non corrisponde un aumento del benessere della maggior parte dei cittadini e non si misura anche il degrado dell’ambiente e il depauperamento delle risorse naturali. Per tale ragione dovremmo rivedere le metriche che misurano la crescita, perché ciò che misuriamo influisce su ciò che facciamo. Se misuriamo la cosa sbagliata, domani faremo la cosa sbagliata; se non misuriamo qualcosa questo qualcosa viene ignorato come se il problema non esistesse. Se non misuriamo le disuguaglianze o il degrado ambientale è probabile che non ce ne occuperemo.
Il PIL rappresenta dal 1953 lo standard internazionale del Sistema dei conti nazionali per misurare la performance economica di un Paese. Le politiche pubbliche devono però essere guidate da un pannello di indicatori che informi delle condizioni materiali in cui vivono le persone e della qualità della loro esistenza, delle disuguaglianze e della sostenibilità. Lo stesso Bob Kennedy, nel suo famoso discorso all’Università del Kansas del 17 marzo 1968, affermò che il PIL include troppi mali che abbassano la qualità della vita ed esclude troppi beni che sono per noi essenziali.
Il cambiamento climatico rappresenta una minaccia per la nostra stessa esistenza e la nostra crescita economica, così come la misuriamo, non è sostenibile dall’ambiente. Se vogliamo consegnare alle future generazioni un contesto favorevole, sarà necessario che le Istituzioni, le aziende e gli attori politici e sociali assumano una visione di lungo periodo e una cultura che ponga la persona e l’ambiente al centro.
Bisogna quindi anche soffermarsi sulle reali modalità di crescita economica di un Paese. Il panorama internazionale conta paesi a crescita non inclusiva, a bassa crescita non inclusiva e a crescita inclusiva. I primi, e ne sono un esempio gli Stati Uniti e l’Inghilterra, si qualificano per la polarizzazione della ricchezza a causa dello scarso peso delle relazioni industriali e di una spesa sociale che tutela solo le condizioni di maggior disagio. La spesa pubblica per l’istruzione e la ricerca di questi paesi ha permesso lo sviluppo di imprese ad alta tecnologia che hanno contribuito alla crescita ma con grandi disuguaglianze. L’Italia è un esempio di Paesi a bassa crescita non inclusiva e anch’esso si qualifica per la polarizzazione della ricchezza. La spesa pubblica, in rapporto al PIL, è più alta di quella dei Paesi ad alta crescita non inclusiva ma è sbilanciata a favore delle politiche passive quali le pensioni e la tutela della disoccupazione solo per alcune categorie di lavoratori. La spesa sociale è poco efficace nella riduzione delle disuguaglianze per via della frammentazione verso alcune categorie ed è indirizzata da ragioni di consenso elettorale. La spesa pensionistica è la componente più rilevante e i costi si scaricano sulla finanza pubblica aumentando il debito pubblico e il deficit di bilancio. Questa redistribuzione poco efficace e molto costosa per le casse pubbliche penalizza la crescita perché sottrae risorse agli investimenti pubblici, in modo particolare alla formazione e alla ricerca. Le relazioni industriali non conferiscono rappresentanza ai gruppi sociali più deboli, in particolare quelli colpiti dai grandi cambiamenti economici, e non contribuisco alla crescita della produttività delle imprese. Nei Paesi dell’Europa continentale, invece, si registra una crescita inclusiva legata ad un rapporto equilibrato nelle relazioni industriali, nel welfare e nella spesa pubblica rivolta a istruzione, formazione e innovazione. Le Relazioni industriali sono caratterizzate dal peso della contrattazione collettiva e da tradizioni istituzionalizzate di concertazione centralizzata tra governi, organizzazioni imprenditoriali e sindacali per le politiche economiche e sociali. Le politiche attive del lavoro sono volte a favorire il lavoro femminile, la formazione e la riqualificazione del personale e a dare una maggiore tutela ai nuovi occupati nei servizi con rapporti di lavoro più discontinui. I maggiori costi delle imprese sono compensati dalle politiche di istruzione, formazione e innovazione che accrescono produttività e competitività.
Il nostro Paese si avvicina ai Paesi ad alta Crescita non inclusiva per ciò che concerne le disuguaglianze e ai Paesi ad alta crescita inclusiva per livello di spesa pubblica per politiche sociali, indicatori di presenza sindacale e relazioni industriali che però si rilevano inefficaci a causa della scarsa estensione degli interessi tutelati.
Il Paese avrebbe bisogno di uno sforzo collettivo volto ad invertire l’attuale scenario adottando i necessari quattro prassi istituzionali: 1) una maggiore responsabilizzazione da parte delle organizzazioni imprenditoriali e sindacali dal lato salariale e nelle domande indirizzate al sistema del welfare attraverso una concertazione a livello centrale; 2) la presenza di forme di partecipazione delle organizzazioni dei lavoratori nella governance delle imprese e nella crescita della produttività; 3) politiche di istruzione, formazione, ricerca e innovazione e l’offerta di servizi e infrastrutture che creino esternalità positive per le imprese; 4) un comportamento responsabile da parte dei partiti con riferimento ai costi delle rivendicazioni che si scaricano sul welfare e sulla sua efficacia redistributiva. Le Relazioni industriali dovrebbero essere volte (i) al sostegno all’occupazione, alla regolazione del lavoro a tempo determinato al fine di evitare abusi e eccessi accrescendone le tutele; (ii) alla riduzione della conflittualità e all’impegno a sostenere attivamente la produttività delle imprese. Tutto ciò presupporrebbe una partecipazione alla governance delle imprese sul modello tedesco che però si qualifica per un tessuto industriali di imprese di medio e grandi dimensioni. Nel nostro Paese sarebbe opportuno prevedere incentivi all’aggregazione e alla crescita dimensionale che peraltro è presupposto all’innovazione e alla formazione interna alle imprese.
Il riassetto del welfare dovrebbe prevedere: (i) l’accesso a prestazioni sociali quali la salute, l’istruzione e i servizi di cura per tutti; (ii) lo spostamento dalle politiche passive (pensioni, prepensionamenti e indennità di disoccupazione) a quelle attive quali maggiori garanzie di reddito e copertura dei rischi a tutela degli outsider esclusi dai settori più protetti, formazione, riqualificazione e innovazione.
In un contesto di maggiore affidabilità ed efficienza della pubblica amministrazione, di rimozione degli ostacoli alla concorrenza, gli imprenditori dovrebbero impegnarsi ad investire di più, accettare alti salari, seppur nei limiti della crescita della produttività. In tal modo ridurrebbero le disuguaglianze, si alimenterebbe la domanda interna e si permetterebbe uno sviluppo più solido e non ancorato alla crescita dell’export.
Tutto questo presuppone che il modello di democrazia liberale a cui aspiriamo si fondi su uno Stato autorevole, dotato di apparati burocratici imparziali ed efficienti, sul primato della legge che sottopone gli apparati burocratici a regole e controlli giudiziari efficienti e su meccanismi di responsabilità politica dei governi nei confronti della cittadinanza.
Paolo Costanzo affronta alcuni di questi temi centrali nel dibattito pubblico italiano nel suo nuovo saggio Italia al bivio: benessere diffuso o declino? edito da Bookabook disponibile in libreria e acquistabile anche sui principali store online.