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Chiusure, aperture, codici Ateco: così il decreto genera caos

di Piercamillo Falasca

Come la larga maggioranza dei cittadini italiani, abbiamo condiviso, apprezzato e rispettato tutte le misure di contenimento e distanziamento sociale finora adottate. Tuttavia, non consideriamo sensato e utile il decreto in vigore da ieri, che sospende le attività produttive considerate non essenziali in tutta Italia (ripeto: tutta Italia, non solo nelle aree oggi più sotto pressione). Anzi, lo riteniamo una mossa fatta più per giocare il solito derby tra populisti e sovranisti che un provvedimento lucido e razionale. Le misure di inibizione degli spostamenti e dei viaggi fuori dal comune di domicilio hanno una logica, il resto è purtroppo confuso: c’è una differenza sostanziale tra misure atte a ridurre le interazioni tra persone (incluso il “viaggio” del virus da regione a regione) e le misure di paralisi della vita produttiva e lavorativa di decine di milioni di cittadini.
Proviamo ad argomentare, pur consapevoli che molti considereranno “inopportune” le opinioni che seguono.

- Un decreto in vigore dal 23 marzo al 3 aprile non avrà effetti visibili nel lasso di tempo considerato: o si spera che entro il 3 aprile le misure precedenti già in vigore creino gli effetti sperati, dunque rendendo inutile questa ulteriore stretta, oppure stiamo già dicendo che il blocco delle attività produttive non essenziali dovrà proseguire dopo il 3 aprile; gli italiani hanno diritto a maggiore trasparenza da parte di chi li governa.

- Avrebbe avuto forse più senso fermare ogni attività produttiva per alcune settimane nelle province più colpite dal virus, per far abbassare la pressione sugli ospedali, e lasciare aperte le province oggi non in crisi sanitaria. Il decreto invece chiude troppo poco in Lombardia e nelle altre regioni più colpite e chiude troppo altrove. Il blocco delle attività produttive ritenute non essenziali applicato in tutta Italia sembra frutto di una illusione: quella per cui, nelle prossime settimane, a un certo punto sconfiggeremo il virus e torneremo tutti alla normalità, dalle Alpi alla Sicilia. Siccome sappiamo che con il virus dovremo convivere a lungo, in questa “nuova normalità” è forse opportuno adottare misure di apertura e chiusura selettive e differenziate per aree del Paese e soprattutto ferree e rigorose misure di sicurezza e protezione dei lavoratori: a maggio, giugno, ma anche a ottobre, novembre, conviveremo ancora con il rischio contagio. Se riusciamo a portare i numeri dei contagi e degli ospedalizzati di Bergamo o di Milano a quelli di Roma, e quelli di Roma dovessero al contrario salire, chiuderemo di nuovo tutto dovunque? Bisogna attrezzarci a conciliare sicurezza delle persone e lavoro, perché non potremmo certo paralizzare le attività produttive e il lavoro per tutto l’anno e oltre.

- Per come è scritto, il decreto genera caos: il governo si è sostanzialmente lavato le mani, affidando ai prefetti la scelta di scegliere chi può lavorare e chi no, sulla base di antiquati codici di classificazione delle attività che andavano forse bene ai tempi dell’influenza spagnola, non ora. Dovremo assistere ora alla conflittualità tra imprenditori che vogliono lavorare e sindacati che vogliono chiudere, con prefetti nel mezzo a mediare, decidendo caso per caso cosa è essenziale e cosa no?

- Come sostiene Alberto Mingardi oggi su La Stampa, il rischio contagio va combattuto, ma non al prezzo di accettare la carestia. Esiste per chi governa la necessità di conciliare esigenze diverse, di cui il benessere e la produzione di reddito è primaria quanto la sopravvivenza, perché è il presupposto della sopravvivenza. L’illusione che lo Stato possa coprire ogni danno (con i soldi della BCE) svanirà presto. Non può esistere un reddito di cittadinanza per tutti. Dobbiamo abituarci a questa nuova normalità, non possiamo sperare che finirà tutto presto e che dunque ogni ulteriore sforzo si giustifica, purtroppo.

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