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Brexit: Labour e Tories diversamente sovranisti. Noi con i LibDem per il referendum bis

di Manlio Trovato

+Europa Londra

La storia politica democratica e liberale del Regno Unito è stata messa a dura prova dalla gestione della Brexit. Alla base di tale crisi c’è l’inadeguatezza dei Conservatori e dei Laburisti, i due partiti politici principali britannici, a rappresentare il proprio elettorato. Ambedue i partiti raccolgono il consenso di un elettorato con pluralità di opinioni, sebbene con chiare differenze sulla politica economica. Ma in ambedue i casi, i leader dei due partiti si sono arroccati su posizioni estremiste: l’uno facendosi interprete delle posizioni sovraniste ed estremiste pro-Brexit, che avevano in passato trovato espressione nel partito indipendentista UKIP, l’altro legittimando sentimenti antisemiti e facendosi portatore di un concetto di società statalista oramai anacronistico.

I due partiti si sono fortemente e velocemente polarizzati al punto tale che una buona parte dei suoi parlamentari adesso fa fatica a riconoscersi nelle scelte politiche dei propri leader. Questo dissenso, diffuso tra i parlamentari dei due partiti, ha trovato una clamorosa espressione la settimana scorsa nell’uscita di otto parlamentari dal partito laburista e di tre da quello conservatore, con la conseguente formazione di un nuovo gruppo parlamentare indipendente.

La crisi di rappresentanza politica si è manifestata in maniera grave ed evidente sul tema Brexit. Infatti, sia in parlamento che nell’elettorato, le posizioni sulla Brexit sono divise all’interno dei due partiti. Né i conservatori né i laburisti sono, al loro interno, uniti sul come interpretare il risultato del referendum consultivo del 2016. Diversa è la posizione dei Liberal Democrats, il terzo partito britannico, che si sono subito schierati uniti a favore del Remain e di un secondo referendum.

Il governo May ha impostato il negoziato sulla Brexit con l’Unione Europea partendo dalla posizione che trovava favore tra i parlamentari conservatori pro-Brexit più estremisti. Le cosiddette “red lines” del governo, cioè le condizioni non negoziabili, presupponevano un taglio netto tra il Regno Unito e l’Unione Europea, che includeva l’uscita dal mercato unico, l’uscita dall’unione doganale, la fine dalla supervisione della corte di giustizia europea e il controllo delle frontiere con la revoca della libertà di movimento dei cittadini europei.

Ma, contemporaneamente, lo stesso governo May si è trovato a dover conciliare tali obiettivi con le posizioni dell’Europa a difesa dei diritti dei cittadini e dell’economia. In particolare, a difesa dell’accordo di pace tra l’Irlanda e l’Irlanda del Nord, che prevede l’assenza di una frontiera tra i due stati, e a garanzia di un periodo di transizione per dare il giusto tempo per negoziare e implementare nuovi accordi commerciali. Ma non è stata solo l’Europa a sostenere questi obiettivi, ma anche la maggioranza dei parlamentari britannici moderati, inizialmente silenziosa ma che adesso sta cominciando a farsi sentire.

Che le due posizioni fossero inconciliabili è risultato evidente dalla difficoltà nel raggiungere un accordo, firmato poi dopo due anni di negoziati dal Regno Unito e l’Unione Europea lo scorso novembre. Accordo che, però, ha scontentato un po’ tutti ed è quindi stato bocciato il mese scorso dal parlamento britannico a larga maggioranza.

In questa situazione di impasse, il governo May ha adottato la tattica del rinvio, sperando di arrivare ad un aut-aut sul filo di lana e obbligare i parlamentari britannici ad approvare l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea con i termini del Withdrawal Deal, come unica alternativa per evitare un’uscita disordinata, il cosiddetto no-deal, o la revoca della Brexit. Dal canto suo, Corbyn, il leader del partito laburista, ha assunto per lungo tempo una posizione ambigua sulla Brexit, strumentalizzando l’atteso fallimento del governo per farlo cadere e arrivare al potere. Nonostante le critiche al governo, Corbyn ha sostenuto, seppure in maniera ambigua, l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, perché questa gli permetterebbe di mettere in atto il suo programma di nazionalizzazioni che, altrimenti, non sarebbe realizzabile sotto i limiti imposti dalla legge dell’Unione. Nell’adottare questa scelta, Corbyn ha di fatto ignorato il dissenso dei suoi parlamentari e della sua base, che è prevalentemente schierata per il Remain.

Le dimissioni degli undici parlamentari dai propri partiti appaiono, dunque, come una forma di protesta liberatoria contro due linee politiche pro-Brexit e estremiste. Parlamentari ribelli perché tenuti ostaggi sulla base del principio di responsabilità collettiva, che è stato abusato da due leader estremisti, al punto da porre le convinzioni di pochi al di sopra delle opinioni dei molti e dell’interesse della nazione.

Questa ribellione può rappresentare, quindi, l’occasione per far prevalere in parlamento uno spirito libero e liberale, e operare per il bene della nazione, e non dei partiti. A poco più di un mese dall’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, il governo dovrebbe consentire al parlamento di raggiungere un accordo cross-party sui termini di uscita, da concordare con l’Unione Europea tramite un rinvio della scadenza dell’articolo 50 e rinunciando alle red lines rigide, estremiste e dannose per la nazione, e poi consentire al popolo di votare, con l’opzione di uscire con tale accordo o rimanere nell’Unione Europea.

Più Europa, tramite il gruppo +Europa Londra, si è mobilitato a sostegno di un voto consapevole e informato sulla Brexit e quindi a favore di un secondo referendum sulla Brexit. Non ci stupiremmo se, dopo tale processo di trasparenza, anche gli elettori britannici si esprimessero liberi dai vincoli di partito e si ribellassero, con il loro voto, alle politiche estremiste dei Conservatori e dei Laburisti, votando a favore di rimanere nell’Unione Europea. Per migliorare l’Europa liberale e renderla più forte.

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