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Perché il prestito da 6,5 mld richiesto da FCA non è uno scandalo

di Paolo Costanzo

La politica del dileggio e della mistificazione della realtà ha contagiato anche gli anti-populisti

L’avvio dell’Istruttoria da parte di FCA Italia S.p.a. e Intesa San Paolo per accedere al beneficio della garanzia concessa da Sace su un finanziamento di 6,5 miliardi ha suscitato reazioni sconfortanti da parte di chi ignora o finge di ignorare la realtà dei fatti. Ciò che più sconcerta è che tali reazioni non provengono solo da chi si qualifica da sempre per un approccio ostile all’impresa ma anche da chi dichiara di ritenere l’impresa ed il suo libero esercizio elemento essenziale alla crescita e allo sviluppo del Paese.
Proviamo a fare un po’ di chiarezza: il decreto liquidità, grazie alla deroga concessa dall’Unione Europea in materia di aiuti di Stato, permette di accedere al beneficio della garanzia, da concedersi entro il 31 dicembre 2020, alle imprese italiane con un volume di affari fino a 5 miliardi di euro per finanziamenti non superiori a 6 anni. L’entità del finanziamento non può essere superiore al maggiore fra il 25% del fatturato e il doppio del costo del personale registrati nell’esercizio chiuso al 31 dicembre 2019. Le imprese di grandi dimensioni sono poi tenute a corrispondere commissioni per la concessione delle garanzie pari a: i) 0,5% il primo anno; ii) 1% durante il secondo e terzo anno; iii) 2% dal terzo anno. Le stesse imprese, nonché tutte le imprese aventi sede in Italia e facenti parte dello stesso gruppo, sono tenute a non approvare la distribuzione dei dividendi e l’acquisto di azioni proprie per tutto il 2020.
FCA Italia S.p.a. non ha sede in un paradiso fiscale in quanto notoriamente l’Italia non è un paradiso fiscale, paga le imposte sui profitti realizzati in Italia e, in quanto sostituto di imposta, come tutte le imprese e i professionisti italiani, paga le imposte per conto dei propri dipendenti e lavoratori autonomi. Ha deliberato di non distribuire dividendi nel corso del 2020 e utilizzerà le somme rinvenienti dal finanziamento per ovviare al buco di liquidità causato dalla crisi sanitaria che ha determinato il blocco della produzione e delle vendite. In tal modo, potrà pagare i propri fornitori, i dipendenti ed evitare una crisi di liquidità a tutte le imprese e i professionisti della sua Supply Chain.
I professionisti del dileggio hanno in pratica confuso FCA Italia S.p.a. con la sua Capogruppo avente sede in Olanda, la quale percepisce dividendi dalla sua controllata, quando gli azionisti lo deliberano, e che, si ribadisce, sono l’esito dell’attività dell’impresa italiana dopo che sono state pagate le imposte previste dalla legislazione tributaria del nostro Paese.
Non possiamo far altro che ritenere auspicabile che l’istruttoria abbia un esito favorevole e tempestivo perché ciò significherebbe che Intesa San Paolo erogherebbe 6,5 miliardi di euro a FCA Italia S.p.a. che a sua volta immetterebbe la stessa cifra nel sistema produttivo a beneficio di tutto il sistema delle imprese e delle partite IVA del Paese.
Si consideri infine, che il legislatore ha ben presente le ragioni che hanno indotto diverse imprese italiane, i cui titoli sono negoziati in mercati regolamentati, a trasferire la propria sede in Paesi i cui ordinamenti prevedono alcune regole di Governance che agevolano le decisioni degli azionisti. Infatti, il decreto rilancio, di cui non comprendiamo le ragioni che ne ritardano la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale (sarà forse perché la pioggia di denaro di cui beneficerà anche Alitalia, non trova adeguate coperture?), ha previsto una modifica all’art. 127-sexies del Testo Unico della Finanza che deroga alla regola one share one vote con l’introduzione delle azioni a voto plurimo. Dobbiamo dire che anche in questo caso il legislatore nazionale non ha esitato a rendere la modifica legislativa difficilmente praticabile introducendo il cosiddetto meccanismo whitewash che permette agli azionisti di minoranza, che detengono almeno il 10% dei diritti di voto, di porre il diritto di veto. Era sufficiente il diritto di recesso da parte dei soci di minoranza che è già previsto dal nostro ordinamento per le variazioni statutarie che modificano i diritti dei soci.

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