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Non angeli ma professioniste

di Adriana Stefanachi

Durante questa quarantena forzata ogni giorno sentiamo parlare di medici, infermieri, operatori sanitari, insomma di tutte le persone che ruotano attorno al mondo sanitario e che si prendono cura della salute delle persone, del cosidetto “care work”, quali “angeli” di questa pandemia che costringe “quasi” tutti gli altri a restare a casa.

Ed è proprio in questa quarantena che ho deciso di spendere un po’ del mio tempo ad analizzare il lavoro di questi “angeli”, soffermandomi sul genere che mi sta più a cuore e nei cui confronti sento spesso il bisogno di tutelare la loro posizione e ruolo, fosse anche solo perché ne faccio parte (ma non è l’unica ragione): le donne.

Ho cercato e ricercato cosa si intenda per “care work” e, anche se non amo usare inglesismi a dismisura, a mio parere, la definizione che più rende l’idea di cosa c’è dietro, o meglio, dentro questa parola composta, l’ho trovato nel Gender Equality Index dell’European Institute for Gender Equality, secondo cui care work è “Work of looking after the physical, psychological, emotional and developmental needs of one or more other people”.

Di primo acchito, quando penso alle persone che si prendono cura dei bisogni fisici psicologici, emotivi e di sviluppo di una o più persone, il mio pensiero va alle donne, e non si tratta solo di una mia percezione romantica, ne danno conferma anche molti studi fatti ai tempi del coronavirus.

Secondo la Shanghai Women’s Federation, le autorità cinesi, che per prime hanno dovuto fare fronte all’emergenza sanitaria da coronavirus, hanno inviato 41 mila operatori sanitari da tutto il Paese nella provincia di Hubei, la più colpita. Al 24 febbraio, 3.387 di questi si erano infettati, e, più di metà dei medici e circa il 90% degli infermieri attivi a Hubei erano di sesso femminile. Inoltre, secondo i dati dell’Oms, più del 70% dei lavoratori che si occupano della salute e della cura della persona in 104 Paesi analizzati sono donne. Donne che guadagnano circa l’11% in meno degli uomini nello stesso settore.

Ma se volessimo circoscrivere l’area d’indagine alla nostra amata Italia, le dichiarazioni della Sottosegretaria alla Salute Sandra Zampa dello scorso 7 marzo, hanno evidenziato che nel nostro Paese le donne sono il 67% del personale sanitario, 400 mila professioniste, una crescita tendenzialmente costante rispetto al 2001, anno in cui rappresentavano il 59%.

Già dieci anni orsono, i professionisti sanitari uomini erano in numero maggiore solo nella fascia degli ultra 65enni, mentre al di sotto dei 45 anni il rapporto numerico sembrava stabilizzarsi su 3 donne per ogni uomo impiegato. Secondo l’analisi di una ricerca del Ministero della Salute svolta da Laura D’Addio, “questa preponderanza delle donne non è più circoscritta a categorie storicamente femminili, come nella professione infermieristica, ma inizia a incidere anche sui ruoli apicali”: dal 2001 al 2010, per esempio, sono quasi raddoppiati i direttori generali donna (da 89 a 163), mentre i medici donna nominati da concorso si sono spostati dal 42% al 55%.

In particolare, già nel 2010, si riscontra un’altra inversione di tendenza storicamente e culturalmente rilevante: le donne fuoriescono dai settori di specializzazione da sempre più femminili (pediatria, ginecologia, psichiatria, psicologia) e si inseriscono in ambiti tradizionalmente considerati d’appannaggio maschile, come la chirurgia e la radiologia. In parallelo, gli uomini della sanità (medici e infermieri) si collocano preferibilmente in urgenza, strumentazione, tecnologia. Questo “sorpasso”, passatemi il termine, si registra anche nella dirigenza sanitaria non medica: farmacisti, biologi e psicologi donna erano già oltre il 70% dieci anni fa, mentre i posti di dirigente medico di struttura complessa erano però assegnati a una donna solo 1 volta su 10.

Ebbene uno degli stereotipi più diffusi in ambito socio-sanitario che vuole l’assistenza al femminile e la cura al maschile è non solo una convinzione diffusa da scardinare; ma un approccio da abbandonare che impone un doveroso ripensamento di tutto il Sistema Sanitario Nazionale.

Ed in una sanità che si sta evolvendo ed è orientata al lavoro di equipe e alla presa in carico globale della persona, (lo abbiamo potuto vedere anche dai filmati che in televisione hanno documentato il lavoro fatto da tutti gli operatori sanitari nelle terapie intensive), il valore aggiunto delle donne in sanità non è comportarsi come gli uomini, ma applicare alla medicina – oltre ovviamente alla competenze specifiche – le proprie caratteristiche, come la tenacia, l’intuito, la capacità di relazione.

Il femminile in sanità apporta principalmente la capacità organizzativa e di sistematizzazione, la qualità relazionale nei rapporti col paziente diminuendo la distanza (si pensi all’importanza di tale attitudine in alcuni setting clinici come per esempio la comunicazione di diagnosi difficili) l’efficacia nel lavoro di gruppo e nella gestione delle reti di relazioni, la mediazione tra posizioni differenti, la competenza comunicativa.

Dite che è fuori luogo ripensare ai servizi per la salute al femminile ai tempi del coronavirus? Io dico di no… Sicuramente offrirà sfide nuove e importanti per le donne che operano nei servizi socio-sanitari, ma in fondo anche per tutta la società.

Non vi ho ancora convinto?

Allora vi lascio alle parole di Federica Stella, 35 anni, medico del 118 con sede operativa a Mestre, Ausl Serenissima: “(…) Di questo periodo non dimenticherò mai l’inversione del comportamento della popolazione nei nostri confronti. Siamo stati oggetto di violenza, bersagli dell’insoddisfazione nei confronti di una sanità non sempre all’altezza delle aspettative. Per la prima volta da quando ho cominciato raccolgo la gratitudine delle persone. Ci voleva questo virus per fargli capire che ci siamo e ci siamo sempre stati. Noi non siamo cambiati, io non voglio cambiare e spero che quando tutto sarà finito continueremo ad apparire agli occhi di tutti quelli che siamo. Non angeli, immagine retorica, ma grandi professionisti, gente che ha scelto questo mestiere perché ci crede. Come me”.

Non angeli, ma grandi professioniste.

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