di Francesco Franco
Quando mi sono avvicinato a quello che era l’embrione di #PiùEuropa alla fonderia napoleonica di Milano nel 2016 l’ho fatto perché volevo partecipare alla costruzione di un’Italia più #Europea.
Ho continuato a restare vicino a Più Europa durante la compagna per le elezioni politiche perché so, e molti come me sanno, che né il reddito di cittadinanza né l'eliminazione di una politica di investimenti nelle infrastrutture (#TAV e #TAP) assicureranno da sole lo sviluppo economico del Paese.
Soprattutto penso che Più Europa serva e debba dare una risposta a quei 30.000 che si sono radunati a Torino sabato 10 novembre. Coloro che sono convenuti in quella piazza lo hanno fatto perché richiedono alle forze politiche di mettere in atto piani volti al sostegno del #lavoro e della crescita economica del Paese.
L’Italia più Europea a cui aspiro potrebbe garantire la #crescita e lo #sviluppo economico, se perseguisse la via di fare delle attuali istituzioni UE una “potenza pubblica” federale o pre-federale. Il che potrebbe accadere se ai cittadini europei fosse riconosciuto, tramite il Parlamento europeo, il diritto di decidere dove destinare le risorse di una linea del bilancio UE per l’eurozona alimentata da un prelievo fiscale sulle cifre d’affari superiori a 10 miliardi di Euro realizzate in Europa dai giganti del web.
Un piccolo provvedimento (tipicamente monettiano, dunque spartiacque) la cui adozione, consentendo di incrementare le risorse UE al di là del misero 1% del PIL UE, rimetterebbe in marcia il meccanismo della #fraternità fra europei.
Il Governo in carica, invece, persegue fini di breve termine e politiche elettoralistiche. I disegni illiberali del governo stanno ponendo le premesse per una grave crisi.
Il 4 marzo 2018 si è affermata la visione di coloro che ci preferiscono privi di sovranità. L’Italia è già ridotta al rango di stato incapace di fornire i beni pubblici della sostenibilità ambientale, della difesa e più in generale di governare i processi internazionali. In una parola è ridotta a semplice stato nazionale (cioè a una scialuppa con cui pretendere di affrontare il mare in tempesta). La Gran Bretagna, che ha iniziato il processo del cambiamento nel 2016, sta andando incontro a questo destino.
Un’Italia più europea assicurerebbe invece lo sviluppo economico ed il lavoro se, oltre alla messa in comune della moneta, avvenuta nel 2001 con la circolazione dell’Euro, si farà partigiana anche della messa in comune della politica #fiscale e di bilancio degli Stati dell’eurozona.
Dal 2008 questa politica è surrogata da una serie di regole e parametri obbligatori che limitano ed incanalano, come un letto di Procuste, le politiche di bilancio dei governi nazionali.
Sono parametri chiaramente insufficienti ad assicurare la #solidarietà fra governi che condividono la stessa moneta e da cui traggono origine alcune gravi distorsioni della concorrenza, come le forti eccedenze nella bilancia dei pagamenti tedeschi e l’utilizzo delle economie UE più deboli - come quelle bulgara, polacca, slovacca ed ungherese - per produrre beni (ad es. automobili) a costi orari della manodopera comparabili con quelli dei paesi poverissimi del terzo mondo ed esportarli verso i paesi terzi, in dumping salariale, sfruttando opportunamente gli accordi commerciali UE. E questo per non subire, in molti casi, dei dazi come verso gli Stati Uniti, o sopportarne quote molto ridotte.
L’emergere di movimenti che intendono rimettere per intero in discussione il lungo processo di pacificazione e sviluppo economico della penisola europea riportandola all’inizio del processo (anni ‘50) si contrasta anche costruendo un’Italia che, contando di più, contribuisca a dare una risposta politica a queste distorsioni.