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La cura o altri rimedi

di Nicole Rubano

Ogni anno, il primo martedì del mese di aprile ricorre la giornata del lavoro invisibile, istituita in Canada per dare riconoscimento e valore all’insieme di attività svolte tra le mura domestiche che, di valore – soprattutto economico – non ne hanno avuto mai. Si include l’attività di pulizia dell’abitazione e di cucina, oltre a servizi di cura per il benessere dei propri familiari, soprattutto i più piccoli e i non autonomi come disabili, malati e anziani.

Definirlo lavoro invisibile, al giorno d’oggi, sembra quasi un paradosso: lo vediamo eccome, ce l’abbiamo sotto gli occhi e ne riconosciamo tanto l’importanza quanto il peso delle responsabilità a esso legate. Si tratta, infatti, di un lavoro indispensabile: senza una persona disponibile a prendersi cura di loro, i soggetti non autonomi non avrebbero la possibilità di vivere una vita dignitosa, in uno spazio domestico ben curato. Eppure, queste attività indispensabili non sono considerate e a livello politico-economico. In altri termini, poiché c’è già chi si occupa di lavoro domestico in via del tutto informale, che l’abbia scelto o meno, la necessità di rendere questo settore visibile passa in secondo piano. Perché?

Lo fanno le donne, da sempre viste come “le regine della casa”, anche tra loro stesse. Un tratto distintivo legato alla cura, all’altruismo e alla disponibilità verso il prossimo. Persino una corrente della storia del femminismo, quella essenzialista, riconducibile alla psicologa Carol Gilligan, ha enfatizzato le attitudini comportamentali delle donne in casa, facendo della cura un potere, un talento, un ruolo. Tuttavia, trattandosi del genere meno rappresentato in politica e meno emancipato nella società, quel ruolo di cura, investito esclusivamente dalle donne nella sfera privata, ha tristemente mantenuto la stessa invisibilità che caratterizzava – e caratterizza – la donna nella sfera pubblica.

Invisibilità che è sinonimo di informalità: non è previsto un compenso economico per il lavoro domestico svolto, non è valutata in termini professionali la competenza della cura, non esiste un gruppo di interesse che possa rappresentare questo lavoro in seno alle istituzioni. Da qui, il ristretto spazio decisionale lasciato alle donne circa i loro “oneri domestici”, per cui ci sono tre opzioni principali.

La prima opzione è svolgere il lavoro domestico a tempo pieno, scelta che coinvolge, secondo la più recente rilevazione Istat (2017), 7 milioni 338 mila donne casalinghe. Una scelta di comodo? Purtroppo no, considerando che si tratta della categoria più a rischio di incidenti domestici, come evidenzia lo studio “Faccende pericolose” dell’Anmil.

La seconda, più “freak” – permettete l’ironia –, è essere childfree, ovvero scegliere la non maternità. Sempre più donne, infatti, rinunciano ad avere figli, registrando, ad oggi, il livello minimo di nascite dall’Unità d’Italia (-4,0 %, Istat 2018). Le ragioni sono molteplici e meriterebbero ulteriori approfondimenti, ma è impossibile non pensare che, tra le motivazioni, possa esserci il bisogno della donna di conquistare indipendenza e empowerment, a costo di rinunciare alla maternità, pur di non vedersi “chiusa” nel ruolo di madre e curatrice domestica verso cui la società la spinge.

Infine, vi è una terza opportunità: assumere il double burden. Interpretato e lodato come “multi-tasking” da alcuni (uomini), ma aspramente condannato come “ingiustizia di genere” dalle femministe contemporanee, il double burden è, letteralmente, lo svolgimento di due lavori, entrambi in modalità full time. Da un lato, il lavoro che la donna svolge in linea con le sue competenze professionali, dall’altro, il lavoro che esegue a casa in tutte le attività di cura domestica che, senza di lei, sarebbero incompiute. Il compenso, però, non è doppio.
Al contrario, è facile prevedere una forte perdita – spirituale, più che economica – per le donne che scelgono il double burden. Meno tempo da dedicare a se stesse, per svolgere attività extra-lavorative ed extra-domestiche, per auto-determinarsi oltre le aspettative sociali.

In sintesi, si tratta di tre differenti risposte con cui l’universo femminile cerca di allinearsi e adattarsi all’informalità che caratterizza il lavoro domestico. Eppure, è evidente quanto ognuna delle tre situazioni descritte presenti delle forti diseguaglianze e ingiustizie. La soluzione a ciò, questa volta, non può essere invisibile. Ogni cittadina, prima o poi, nel corso della sua vita, dovrà scegliere uno di quei tre contesti, accettandone gli esiti subottimali che ne derivano, solo perché il lavoro invisibile continua a essere ignorato dall’economia e dalla politica. Dunque, da dove si potrebbe partire?

Il primo passo consiste nel monetizzare la cura domestica, ovvero stabilire e garantire il valore economico a cui corrisponde il servizio di cura, in proporzione a quanto viene svolto da tutte le donne, tanto le casalinghe, quanto le lavoratrici. Al contempo, è necessario formalizzare la cura domestica, quindi riconoscere e legare l’attività a una competenza degli individui, piuttosto che a un talento di genere, così da abilitare l’intero nucleo familiare allo svolgimento delle attività domestiche.

Per raggiungere questo risultato, è pur vero che le donne, loro stesse, devono iniziare a cedere le responsabilità del lavoro di cura, abbandonando il trono da “regine della casa” ereditato dalla tradizione. Naturalmente, un riconoscimento economico e sociale non è facile da raggiungere. Si tratta di studiare e modificare stereotipi e tradizioni di genere consolidati da tempo e già radicati nel sistema che ci circonda, incluse le stesse classi dirigenti dell’economica e della politica. Non a caso, questi ultimi sono contesti di potere in cui le donne sono in forte minoranza e hanno poco margine per esporre le loro problematiche e discuterne le soluzioni.
È una commemorazione triste, dunque, quella del primo martedì di aprile: un problema politico evidente, ma nascosto in quattro mura domestiche.
Non sarà che il lavoro invisibile non ha bisogno di un riconoscimento, ma di una radicale rivoluzione?

Questo articolo è stato pubblicato su La27Ora del Corriere della Sera 

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