Di Antonella Lancellotti
In un'intervista la calciatrice italiana Sara Gama, capitano della nazionale italiana femminile, nonchè difensore della Juventus, durante una trasmissione televisiva, affermava che le calciatrici italiane non sono considerate delle professioniste, ma delle dilettanti, e sul loro documento di indentità risultano come disoccupate.
Affermazioni che mi hanno lasciata sbalordita, incuriosita ed hanno attirato il mio interesse nei confronti di uno sport che non amo molto.
Cosi ho iniziato le mie ricerche ed ho scoperto che al calcio femminile non si applica la L. n. 91 del 1981, la quale definisce chi sono i professionisti sportivi, oltre a disciplinare i rapporti tra le società sportive e i giocatori professionisti. La legge demanda l'attribuzione della qualifica alle federazioni sportive nazionali.
Infatti, le Norme Organizzative Interne della F.I.G.C. (la federcalcio), qualificano come “non professionisti” i giocatori partecipanti ai campionati di calcio femminile, che svolgono attività sportiva per le società che sono associate alla lega nazionale dilettanti. Per tutti i “non professionisti” è esclusa ogni forma di lavoro, sia autonomo che subordinato.
Quindi le calciatrici sono considerate delle dilettanti e possono solo firmare degli accordi economici con le società sportive, disciplinati sempre dalle norme di organizzazione interna della federcalcio (ex art 94 ter). Nella realtà, però, svolgono un'attività sportiva a titolo oneroso con carattere continuativo, quindi sono delle professioniste a tutti gli effetti.
Le giocatrici non hanno gli stessi diritti dei loro colleghi uomini e non hanno le stesse tutele di qualunque altro lavoratore subordinato: contributi pensionistici, maternità e tutele contro le molestie, insomma non hanno tutti quei diritti che spettano ad un qualunque lavoratore subordinato o autonomo. Sono delle disoccupate.
Ci sono differenze anche all'interno dello stesso calcio femminile. Se si gioca per una grande squadra di serie A, si è "delle privilegiate", come sosteneva la capitana della nazionale nell'intevista, perchè si hanno maggiori tutele rispetto a quelle giocatrici che appartengono ad una squadra economicamente inferiore, anche se della serie A.
Eppure grazie ai mondiali di calcio del 2019 disputati in Francia, l'interesse per il calcio femminile è aumentato, si è passati a considerarlo una sport "troppo lento” ad un gioco avvincente ed entusiasmante, a tal punto che una partita di calcio dei mondiali (Italia-Brasile) trasmessa in tv, ha raggiunto uno share del 29%.
Ed ancora: nel 2018 i tesseramenti delle donne alla Federcalcio sono aumentati di circa 8%, di cui quasi il 54% del totale è costituito dalle Under 18. Negli ultimi anni la squadra nazionale femminile ha raggiunto degli ottimi risultati anche a livello internazionale.
Ciò non è stato sufficiente a riconoscere un'idendità alle giovani giocatrici, che investono il loro futuro in un lavoro in cui vige ancora il pregiudizio che "le donne non sanno giocare a calcio".
Non è stato sufficiente ad eliminare le discriminazioni esistenti all'interno del calcio femminile e non è bastato ad equipararlo al calcio maschile.
Le disuguaglianze e le disparità sono state molto evidenti anche nella fase successiva al lockdown, la cosidetta fase 2 di ripresa di tutte le attività economiche e lavorative.
Infatti, il campionato italiano maschile a giugno riprendeva, anche se a porte chiuse, mentre per la Serie A femminile, la Figc decideva il blocco per 6 mesi e la mancata assegnazione dello scudetto, fissando la data della prima partita al 22 agosto 2020.
Gli interessi economici e i diritti tv, che sono la maggiore risorsa dei club, hanno prevalso sui valori e sui principi che lo sport dovrebbe trasmettere.
Lo sport, insieme alla scuola, alla famiglia costituiscono un ambito importate di formazione per le future generazioni e dovrebbe infondere messaggi positivi.
Dovrebbe promuovere l'uguaglianza di genere, riconoscendo gli stessi diritti senza distinzione di sesso, ed invece ci ritroviamo in un mondo ancora del tutto maschilista in cui l'identità della donna lavoratrice viene sottovalutata.
Non si tratta solo del riconoscimento di attribuire un ruolo apicale alle donne nel mondo dello sport e della società o di riconoscere la parità salariare, si tratta di accreditare uno status che le donne calciatrici meritano con tutte le tutele che ne derivano. Sono delle lavoratrici che hanno dei doveri e dei diritti come qualsiasi altro professionista.
La legge del 1981 andrebbe modificata ed ampliata, ma ancor prima ognuno di noi dovrebbe infondere ed educare alla cultura che qualsiasi attività sportiva e non, può essere esercitata da chiunque, senza distinzione di genere e riconoscendo pari dignità.