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I diritti umani e le libertà civili alla prova della pandemia

di Yuri Guaiana

A due mesi dalla dichiarazione dello stato di emergenza in conseguenza del rischio sanitario connesso al coronavirus in Italia è ormai chiaro che le soluzioni adottate per far fronte alla pandemia rappresentano delle criticità importanti in termini di diritti umani e le libertà civili. Posto che bisogna assolutamente rispettare con responsabilità le leggi in vigore in Italia per l’emergenza sanitaria, la critica costruttiva è altrettanto necessaria.

Per limitarci ai soli paesi democratici e semplificando brutalmente, da una parte, vi è il cosiddetto modello italiano, cioè il lockdown, con tutte le sue varianti, e dall’altra quello sud coreano, del test, trace e treat, e di tutte le sue varianti, la più rilevante delle quali è quella taiwanese.

Io sono d’accordo con Gilberto Corbellini, ordinario di storia della medicina e docente di bioetica alla Sapienza, che sul Dubbio di sabato 28 marzo ha scritto: “Sembra oggi di essere nel ‘600, chiudiamo chi non è malato in casa con le finestre inchiodate e portiamo tutti i malati a morire nei lazzaretti. Le conoscenze e le intelligenze guadagnate dovrebbero indurci a prendere misure differenziate sulla base dei rischi individuali o di gruppo di trasmettere la malattia o di ammalarsi in modi più o meno gravi, coinvolgendo le persone nell’assunzione delle responsabilità. Solo in questo modo, forse, ne usciremo salvando anche le regole e i valori di quella modernità che ci ha resi persone libere”.

Oltre ad essere più efficace, come dimostrano i dati, il modello sud coreano è anche l’unico sostenibile nel medio periodo. Non è affatto troppo tardi per adottarlo, tanto è vero che la Germania ha già pronto un piano in questo senso. Anzi sarebbe un modo prudente per uscire dal lockdown.

Ma quali sono i costi in termini di diritti umani e libertà civili di entrambi i modelli?

Per quanto riguarda il modello italiano, possiamo affidarci, oltre all’esperienza di ciascuno di noi, anche alle parole usate dal Presidente del Consiglio nella relazione di presentazione al Parlamento del decreto legge n. 19 del 25 marzo 2020: “Per la prima volta dalla fine del secondo conflitto mondiale siamo stati costretti a limitare alcune delle libertà fondamentali garantite dalla Costituzione, in particolare la libertà di circolazione e soggiorno, la libertà di riunione nelle sue varie forme, la libertà di coltivare financo di contenere pratiche religiose”.

La dottrina si sta già interrogando se queste limitazioni, non arrivino a intaccare addirittura il nucleo della libertà personale, intesa come la libertà della persona fisica da ogni coercizione che ne impedisca o limiti – anche per breve tempo – i movimenti e le azioni.

Nel contesto italiano, per di più, si aggiunge una genericità testuale delle prescrizioni che lascia margini di incertezza esecutiva tali da consegnare agli organi di Polizia una vasta discrezionalità interpretativa, ponendo così un serio problema di arbitrio.

Per non parlare delle drammatiche conseguenze sociali che la limitazione alla libertà di iniziativa economica sta già facendo intravvedere.

Per una disamina delle criticità giuridiche del modello italiano segnalo questo lungo articolo verso il quale sono debitore.

Di fronte a queste criticità, quelle dei modelli adottati in Corea del Sud, Taiwan e Singapore impallidiscono, se pur permangono, soprattutto in termini di privacy. Questi modelli vengono troppo spesso chiamati delle tre T (test, trace e treat) dimenticandosi la quarta e fondamentale T, quella della trasparenza. Proprio su questa T il governo sud coreano ha insistito molto nella conferenza stampa tenuta il 9 marzo scorso.

Il Viceministro del Welfare, ha definito il lockdown come un approccio “coercitivo e inflessibile che porta a un’inevitabile riduzione della partecipazione attiva e democratica della popolazione”. Per questa ragione, “un Paese democratico come la Corea del Sud, che tiene molto a una società pluralistica, ha adottato un modello innovativo per rispondere alle crisi sanitarie”, ha detto il viceministro. Un modello dinamico per società aperte e democratiche incentrato su:

  • apertura e trasparenza per coinvolgere la popolazione: le informazioni (incluse quelle relative agli spostamenti de pazienti positivi al coronavirus) sono condivise rapidamente e in totale trasparenza in modo da assicurare fiducia nel governo;
  • adesione volontaria al programma da pare di molti cittadini;
  • uso delle più moderne tecnologie per rendere il modello più efficiente.

 

Un modello molto simile è stato adottato da Singapore, dove il Ministero della Salute ha reso pubbliche le informazioni sui pazienti positivi al coronavirus e uno sviluppatore ha trasformato le informazioni in una mappa interattiva  che è diventata virale, scatenando un dibattito sulla sua utilità per la salute pubblica e sui rischi per i pazienti positivi, che potrebbero subire discriminazioni e stigmatizzazioni. In ogni caso, la mappa non è stata più aggiornata dal 18 marzo, poiché il volume dei casi aveva superato i limiti che lo sviluppatore si era dati.

 

Per saperne di più sul modello di Singapore si può leggere questo articolo.

 

Un simile dibattito si è verificato anche in Corea del Sud quando un sindaco ha riconosciuto un paziente rivelandone il cognome su Facebook:

Bisogna essere consapevoli di questi rischi per mitigarli il più possibile ed evitare gli abusi.

Il successo di Taiwan, invece, si è basato su una fusione di tecnologia, attivismo e partecipazione civica. I taiwanesi condividono le informazioni sulla loro sintomatologia su una piattaforma che le raccoglie e verifica rapidamente. Un’applicazione permette poi di scaricare la cronologia della posizione dello smartphone di ciascuno per determinare se si è stati esposti.

A differenza della Corea del Sud, quindi, gli spostamenti individuali non sono resi pubblici e la privacy viene quindi protetta maggiormente.

La disponibilità di queste informazioni ha ridotto drasticamente l'onere economico del contenimento, evitando politiche uniformi ed estreme di distanziamento sociale, permettendo ai cittadini di evitare o disinfettare i luoghi compromessi e di mettersi in auto-isolamento, se necessario.

Rendendo la risposta alla crisi sanitaria estremamente trasparente (il ministro per la digitalizzazione Tang pubblica su internet le dirette di tutti i suoi incontri) il governo di Taiwan ha ottenuto la fiducia dell'opinione pubblica. Ammettendo le difficoltà del governo, piuttosto che tentando di proiettare un'aura di invincibilità, ha incoraggiato una serie di attori decentralizzati a contribuire alle soluzioni grazie alle informazioni ufficiali.

Per saperne di più sul modello di Taiwan si possono leggere questo articolo e questo

Per un approccio altrettanto aperto, partecipativo e high-tech adottato in Estonia, si può leggere questo articolo.

Persino un intellettuale attento ai rischi delle nuove tecnologie come Yuval Noah Harari ha definito gli sforzi di Corea del Sud, Taiwan e Singapore come quelli “più efficaci nel contenere il coronavirus”, aggiungendo: “Anche se questi paesi hanno fatto un certo uso di applicazioni di tracciamento, si sono affidati molto di più a test capillari, a rapporti onesti e alla collaborazione volenterosa di un pubblico ben informato”.

In ogni caso, come ricorda lo European Data Protection Board, il GDPR consente alle autorità sanitarie pubbliche competenti di trattare i dati personali nel contesto di un'epidemia, in conformità con la legislazione nazionale.

Per quanto riguarda in particolare le localizzazioni, l'articolo 15 della direttiva ePrivacy consente agli Stati membri di introdurre misure legislative per salvaguardare la sicurezza pubblica.

Detto questo, qualsiasi uso governativo di big data per tracciare la diffusione dei virus deve essere spiegato chiaramente e rapidamente ai cittadini. Ciò include la pubblicazione di informazioni dettagliate sulle informazioni raccolte, il loro periodo di conservazione, gli strumenti utilizzati per elaborarle, il modo in cui questi strumenti guidano le decisioni in materia di salute pubblica e se questi strumenti hanno avuto esiti positivi o negativi.

Per preservare un rapporto di fiducia con i cittadini, sarebbe bene progettare le applicazioni necessarie open source.

Le autorità pubbliche devono , inoltre, elaborare i dati relativi alla localizzazione in modo anonimo (ossia attraverso l'aggregazione e il conteggio statistico dei dati in modo che i singoli individui non possano essere ri-identificati), il che potrebbe anche consentire di generare rapporti sulla concentrazione di dispositivi mobili in un determinato luogo.

Anche in questo caso, comunque, occorre limitare temporalmente lo storico dei dati, la loro conservazione e la localizzazione pubblica, tenendo in considerazione che il coronavirus ha un periodo d’incubazione di 15 giorni.

 

L’articolo 5 del GDPR chiarisce altri due principi fondamentali:

  • i dati devono essere raccolti per scopi ben precisi, come, per esempio, monitorare il rispetto delle misure governative da parte dei cittadini;
  • possono essere raccolti e trattati solo i dati personali realmente necessari a tali scopi;

 

Infine, se un governo cerca di limitare i diritti di una persona sulla base dei big data (ad esempio, per metterla in quarantena sulla base delle conclusioni del sistema sulle sue relazioni o sui suoi viaggi), allora la persona deve avere l'opportunità di fare ricorso.

Seguire questi principi permetterebbe di mitigare i rischi inerenti al modello delle quattro T.

In conclusione, bilanciare diritti umani fondamentali come quello alla salute con le libertà civili e personali durante una pandemia non è affatto facile, ma il modello taiwanese, in primis, e quello della Corea del Sud sembrano decisamente più adeguati a questa sfida – oltre ad essere più efficaci e sostenibili – del modello italiano.

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