Oggi su Il Fatto Quotidiano Marco Travaglio dedica un pezzo, ovviamente antipatizzante, all’iniziativa di Più Europa sulla prescrizione, denunciando la contraddizione tra l’identità europeista del partito e l’ostilità a una riforma – il blocco del corso della prescrizione dopo il primo grado di giudizio – che “ci chiede l’Europa”.
A sostegno della sua tesi il direttore del Fatto cita un rapporto del “GRECO” (Groupe d'États contre la corruption), un organo di controllo contro la corruzione del Consiglio d'Europa, che ha rivolto alcune raccomandazioni al nostro Paese per la prevenzione della corruzione nel mondo politico e giudiziario, tra le quali c’era una richiesta di intervento sulla prescrizione. Nei rapporti del “Greco” c’è la richiesta di una limitazione dell’attività politica consentita ai magistrati.
La seconda pezza d’appoggio di Travaglio è la cosiddetta “sentenza Taricco” della Corte di Giustizia europea sulla disapplicabilità da parte dei giudici nazionali dei limiti della prescrizione in caso di frodi fiscali che danneggino gli interessi finanziari dell’Unione. Questa vicenda, dopo una sorta di “dialogo” con la Corte Costituzionale italiana, ha portato i giudici europei a una decisione più equilibrata, che non ha affatto cancellato l’istituto della prescrizione per i reati fiscali.
Le due pezze di Travaglio sono, diciamo, un po’ poco per dire che è l’Europa a volere l’abolizione della prescrizione, anche perché l’Europa – cioè il diritto europeo e le istituzioni chiamate a applicarlo e a garantirne il rispetto – è decisamente convergente sull’obiettivo di scongiurare la sciagura del “fine processo mai”.
L’articolo 6 della Convenzione europea sui diritti umani e l’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea stabiliscono chiaramente che ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata entro un termine ragionevole. È lo stesso principio stabilito dall’articolo 111 della Costituzione italiana, che stabilisce che il processo debba avere durata ragionevole.
Nei diversi ordinamenti nazionali in base al diritto europeo il legislatore è libero di riconoscere la prescrizione come istituto sostanziale o processuale. Ma il presupposto comune – proprio in ragione di vincoli costituzionali, quali sono anche quelli della Cedu oltre che quelli della nostra Carta fondamentale – è che nessun cittadino, né italiano, né europeo, può rimanere in balia di processi senza fine. Ne fa fede – è cosa nota, ma sottovalutata – la regolarità imbarazzante con cui la Corte europea dei diritti umani condanna l’Italia per l'eccessiva durata dei processi, non solo penali, nonché il conto salato di circa 150 milioni di euro all’anno che lo Stato italiano versa per gli indennizzi legati alla legge Pinto. Insomma, non è solo l’Europa a condannare l’Italia, ma l’Italia, in base alle proprie stesse leggi, a condannare se stessa per le lungaggini processuali.
Il problema che i “populisti penali” ignorano o occultano è che la prescrizione è un mezzo, ma il fine è la ragionevole durata del processo, che è una condizione inderogabile di giustizia. La prescrizione è una misura della inefficienza della macchina giudiziaria, non della impunità degli imputati che possono essere considerati colpevoli, e trattati come tali, solo al termine del processo. L’istituto dell’ergastolo processuale – cioè della reclusione a vita nel giudizio penale – è invece il semplice antipasto di una giustizia neo-inquisitoriale, di cui i nemici della prescrizione stanno preparando da tempo il tossico menù.