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Donne imprenditrici: il coraggio di ribaltare gli schemi

di Isabella Sitar

Mia mamma ha una storia speciale. Nasce in un’isola dei Caraibi chiamata Puerto Rico, uno stato non incorporato degli Stati Uniti. Per me è una donna bellissima, e in effetti da giovane assomigliava a Whitney Houston la mia cantante preferita, protagonista di uno dei film d’amore che ha fatto sognare tutte le ragazze negli anni ’90, The Bodyguard. Da piccola si trasferisce con la famiglia a New York nella centralissima Manhattan durante i tumultuosi anni ’60. Lì, dopo diversi anni, conosce mio papà, un giovane medico alle prime esperienze lavorative.

Si rincontrano a Parigi - dove vivono per un paio d’anni - per poi venire in Italia, dove siamo nate io e mia sorella. Mio papà lavora e mia mamma, che ancora non parla italiano e non ha genitori o familiari che possano aiutarla, si occupa di noi e della nostra crescita.

Mia mamma però, che è sempre stata una donna dinamica e indipendente, sente la necessità di tornare a lavorare una volta che io e mia sorella siamo diventate più grandi.

Ma come può una donna non più giovanissima rientrare nel mondo del lavoro dopo anni di assenza?

Siamo a fine anni ’80 ed è solo nel secondo dopoguerra che la Costituzione italiana garantirà alle donne pari diritti con l’articolo 3 e - in particolare - il diritto a ottenere la stessa retribuzione a parità di lavoro, con l’articolo 37. Ma come è capitato con altri articoli della nostra Costituzione questi diritti sono stati a lungo disattesi.

Le cose cambiano con la legge del 1975, che parifica la posizione di marito e moglie all’interno della famiglia e, con la legge del 1977, che riconosce la parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro (assunzioni, retribuzioni e carriere).

Nella pratica, tuttavia, quest’ultima legge non risulta interamente applicata nemmeno oggi, a dispetto delle numerose direttive emanate in merito dall’Unione Europea. In Italia la partecipazione femminile al mondo del lavoro rispetto agli altri paesi occidentali, è ancora molto limitata: il divario è il più importante fra i paesi Europei e, secondo  il Winning Women Institute, la situazione sembra peggiorare di anno in anno.

Il problema del lavoro riguarda il modello mediterraneo di welfare state: la cura, infatti, è tradizionalmente affidata alle donne. Secondo una ricerca ISFOL, il 46% delle donne inattive dichiara di aver lasciato il lavoro per le difficoltà nel conciliare lavoro e famiglia. Un’altra ricerca, invece, effettuata dall’INPS dimostra che il 25%  delle donne che hanno partorito nel 2009, 4 anni dopo non sono più rientrate al lavoro: si parla in questo caso di maternity gap ossia di disparità tra lavoratore e lavoratrice  nel momento in cui le donne partoriscono.

Non sorprende, quindi, che molte donne scelgano come soluzione alternativa all’inattività quella del lavoro autonomo pur di riuscire a lavorare.

Secondo l’Osservatorio per l’imprenditoria Femminile di Unioncamere, le imprese italiane sono  6 milioni 94 mila e di queste soltanto 1 milione 335 mila è guidata da donne, cioè  il 21,9%.  Quindi ogni 5 imprenditori  1 è donna!

Se, da una parte, le più giovani ed istruite sono motivate dal desiderio di indipendenza, dall’altra le più adulte scelgono questa opzione per rientrare nel mondo del lavoro che avevano abbandonato per dedicarsi alla cura dei figli. Perché, sono soprattutto le donne che rischiano di dover restare a casa rinunciando al lavoro per gestire i figli molto più spesso di quanto non accada ai papà che  continuano a guadagnare più delle mogli per il gender gap sugli stipendi.

Ritorno alla vicenda della mia famiglia.

Inizialmente mia mamma, conoscendo diverse lingue tra cui l’inglese perfettamente, inizia a svolgere lavori che richiedono l’utilizzo della lingua, ma poi le viene un’idea: decide di avviare un’attività in proprio. E l’idea è quella di partire da sé, dalle sue caratteristiche e peculiarità che tanto incuriosiscono le persone. L’idea è quella di far conoscere la sua terra, le sue origini e la sua cultura che all’epoca era ancora sconosciuta alla maggior parte della persone. L’idea è quella di trasformare una passione in lavoro: insegnare a ballare i balli caraibici. In modo amatoriale, si intende, perché mia mamma non è una professionista ma una persona che ama la musica e ama ballare perché la musica è un aspetto fondamentale della sua cultura.

Ma come iniziare? A piccoli passi, un po’ alla volta, con pazienza, determinazione e una gran de passione. E soprattutto con l’aiuto di mio papà che l’ha sempre sostenuta nel suo percorso di realizzazione.

Con il tempo i corsi iniziali  portano alla realizzazione di un progetto più grande: una scuola di danza in cui svolgere corsi di ballo caraibici per adulti e nuovi corsi per ragazzi, tenuti da  insegnanti professionisti. Una scuola assolutamente innovativa per la città, forse anche per l’Italia.

Oggi la situazione per le scuole di danza e per tutti gli operatori dello spettacolo è drammatica, per questo la vicepresidente di Aidaf-Agis, Liliana Cosi ha lanciato un appello: “Le scuole di danza private in Italia rappresentano un comparto dello spettacolo dal vivo che conta circa 30.000 scuole con un indotto di circa 5 milioni di persone. La formazione dei danzatori è affidata quasi totalmente a loro. E non solo. La loro valenza educativa e sociale è ormai ampiamente provata poiché contribuiscono, in maniera sostanziale, alla promozione, allo sviluppo e alla diffusione della cultura nel nostro Paese, svolgendo un’attività di primaria importanza a livello sociale e aggregativo per i giovani e formando il pubblico del domani. La tremenda emergenza del covid-19 che ci ha travolti, immergendoci in una situazione surreale, ha imposto la loro chiusura mettendole in ginocchio e, se non ci saranno aiuti sostanziali e  concreti, molte saranno a rischio di chiusura".

Come il settore dello spettacolo molte altre imprese faticheranno a sopravvivere alla crisi provocata dall’emergenza Covid-19. Modefinance, società specializzata nel rating delle imprese e delle banche, analizzando i bilanci di 11 mila imprese manifatturiere lombarde ha rilevato un calo del 10% del Pil nel 2020. Se non vengono adottati dei provvedimenti circa 1.028 imprese rischiano il fallimento.

L’emergenza sanitaria ha messo in evidenza tutti problemi dell’Italia tra cui i problemi delle donne lavoratrici e imprenditrici che stanno pagando il prezzo più alto.

I settori che la crisi colpisce maggiormente sono i settori in cui lavorano le donne quelli anche meno remunerativi e cioè turismo, commercio e comunicazione; mentre i settori meno colpiti sono proprio i settori con maggior presenza maschile e più remunerativi cioè banche, ingegneria, area oli e gas. A questo si aggiunga le difficoltà connesse allo smart working con i figli a casa e il lavoro domestico: per il 74% delle donne italiane non c’è nessuna condivisione con il partner perché in Italia sono ancora radicati stereotipi di genere che assegnano alle donne ruoli e compiti familiari che in altri paesi sono condivisi in modo più equo nella coppia.

Ma più donne al lavoro e più donne che fanno impresa significa avere una maggiore crescita del paese e più bambini che nascono, perché quando le donne lavorano scelgono con serenità di diventare madri, e avere donne dove si prendono le decisioni importanti significa favorire la ripresa economica.

È necessario rivedere le politiche pubbliche e sociali offrendo servizi necessari in una economia avanzata che attiva le donne, non scaricando su di queste tutto il peso della gestione familiare. Servono più asili nido a prezzo sostenibile, più servizi all’infanzia, congedi obbligatori e prolungati per i padri che contribuiscano a redistribuire gli oneri e a riequilibrare i costi del lavoro tra i generi.

È necessario inoltre promuovere l’imprenditoria femminile sviluppando una  formazione che incoraggi bambine e ragazze ad acquisire le  STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics), conoscenze e competenze in scienza, tecnologia, ingegneria e matematica, in modo da riuscire a superare gli stereotipi di genere. Ma anche pensare a normative destinate ad agevolare l’imprenditoria femminile in Italia.

Molti studi sostengono che le donne sono più adatte ad individuare i bisogni del mercato e a coglierne le opportunità. Mancano però i “role model al femminile”, osserva Claudia Pingue, generale manager del PoliHub, l’incubatore gestito dalla Fondazione Politecnico di Milano. Bisogna proporre storie di donne imprenditrici che ce l’hanno fatta. Storie di donne che possano   ispirare e stimolare altre donne.

Sul tema del “role modelling” sono uscite negli ultimi anni interessanti produzioni, segno che i media si sono resi conto di quanto la loro stessa comunicazione abbia concorso a sviluppare una modalità narrativa unidirezionale. 

Un’iniziativa interessante è quella del Time che con “100 women of the year dedica 100 copertine alle donne, dal 1920 delle suffragette al 2019 di Greta Thunberg.

Ma gli elenchi da soli non bastano, serve un’azione culturale che scardini le convinzioni. Bisogna trovare il coraggio di raccontare la nostra storia, valorizzandola e condividendola sia in modo professionale sia in modo personale, perché il personale diventa pubblico quando rappresentare qualcosa può avere un impatto su altre persone.

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