Salta

Dl semplificazioni, via gli ostacoli a concorrenza e trasparenza

di Valerio Federico e Dino Guido Rinoldi

 

Il 7 agosto è apparsa, sul sito dell’Autorità Nazionale Anticorruzione - ANAC, una Nota di analisi del decreto legge n. 76/2020 (entrato in vigore il 17 luglio) concernente «Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale». Date le competenze dell’ANAC la Nota si occupa, ovviamente, dei soli contratti pubblici. Dall’analisi emergono molteplici criticità che la conversione in legge del decreto, da effettuare entro sessanta giorni, dovrebbe necessariamente valutare.

Risultano condivisibili e politicamente significativi soprattutto certi rilievi, fra i tanti presentati.

Per prima cosa: dopo il COVID “mozzafiato” occorre dar respiro nell’economia alla concorrenza sana e regolata. Non lo si fa se, come fa il decreto, si punta su un sistema di assegnazione dei contratti pubblici (di lavori, servizi o forniture) per una loro fetta molto consistente con criteri certamente semplificati, ma improntati a grande discrezionalità. Il decreto dispone infatti che i contratti cosiddetti “sotto soglia UE”, perché di valore inferiore a 5,35 milioni di euro, possano essere affidati secondo due procedure. O direttamente, senza gara, a un operatore economico precisamente individuato, quando il contratto valga meno di 150.000 euro. Oppure invitando a presentare l’offerta un puntuale numero di operatori, variabile secondo l’importanza dell’affidamento, quando il valore di quest’ultimo sia compreso fra 150.000 e 5,35 milioni di euro (cd. procedura negoziata, che è pur sempre senza gara). C’è da chiedersi se questa obiettiva semplificazione sia in grado di mettere in bilanciamento le esigenze di rapidità e tempestività degli affidamenti pubblici con quelle di efficienza, innovazione, trasparenza e competitività tra operatori economici, di non discriminazione fra loro e perfino di legalità, a fronte di episodi gravi e non sporadici di infiltrazione criminosa (la quale com’è noto “segue i soldi”) verificatisi nel periodo della pandemia. La fetta di mercato così consistente coperta dagli affidamenti “sotto soglia UE” - pari nel 2019 al 71/72% del totale – suggerisce che il legislatore manifesti un consistente ripensamento al ribasso dei due “tetti” per favorire concorrenza, innovazione, efficienza, allontanando anche il rischio che ora c’è di favorire addirittura l’aumento della corruzione.

In secondo luogo: il decreto comporta nei fatti una grande incertezza quanto alle norme da applicare caso per caso. Ciò accade in almeno due situazioni. Anzitutto là dove introduce (art. 2.4) nell’ambito dei contratti cosiddetti “sopra soglia” (oltre i 5,35 milioni di euro), quando ricorra l’«estrema urgenza», la facoltà di derogare a ogni disposizione diversa dalle norme penali, dal Codice antimafia nonché dai «vincoli inderogabili derivanti dall’appartenenza all’Unione europea». Poi là dove consente (art. 9) il ricorso a commissari straordinari.

ANAC osserva (p. 10 della Nota) che la deroga a ogni disposizione di legge non solo «appare sproporzionata rispetto all’obiettivo di incentivare gli investimenti pubblici», ma impone a chi affida la commessa pubblica «un’attività non agevole per individuare le norme da applicare al caso concreto». E cioè: se è esclusa l’applicazione delle norme dell’attuale Codice dei contratti pubblici (vigente dal 2016, in attuazione delle direttive UE emanate in materia nel 2014) per la gestione ordinaria di questi ultimi, quali disposizioni possono essere usate? Non certo esclusivamente le direttive europee - di non facile interpretazione e applicazione - perché contengono norme indirizzate ai 27 Stati membri UE e dunque sono bisognose di una “mediazione” di adeguamento da parte di ciascuno di essi. Le direttive in ogni caso non sono, di per sé stesse di facile interpretazione e applicazione. E poi: una deroga siffatta va nella direzione opposta a quella auspicata dagli operatori economici e dagli enti pubblici, i quali si sono continuamente lamentati dal 2016 a oggi di non avere a disposizione chiare norme vincolanti attuative del Codice: il riferimento ai «vincoli inderogabili» discendenti dall’appartenenza all’UE è veramente troppo vago.

E si lasci perdere il cosiddetto “modello del Ponte Morandi” (ora S. Giorgio) perché costituisce un’assoluta eccezione non replicabile: si tratta di opera che non ha richiesto né programmazione (non c’erano alternative al tipo di opera, al suo tracciato e al luogo su cui farlo correre), né progettazione (perché regalata da Renzo Piano), né sollecitazione alla concorrenza fra imprese costruttrici (perché costrette dagli eventi e dall’impatto mediatico a mettersi d’accordo).

Bisogna piuttosto lavorare sull’attuale Codice in modo che esso sia esclusivamente attuativo delle direttive UE:per esempio diminuendo il numero di procedure (fatte aumentare nel 2016 rispetto alle direttive), eliminando dal Codice i limiti al subappalto, non duplicando – come fa il decreto - disposizioni già esistenti (artt. 63 e 163)per le situazioni di urgenza.

In terzo luogo: il decreto solo in alcune norme menziona l’obbligo di garantire la trasparenza amministrativa. Ciò potrebbe condurre a dedurre che, là dove non se ne parla, la trasparenza non sia necessaria. Il decreto rischia dunque quanto meno di indurre in errore chi lo applica. E’ auspicabile che il Parlamento corregga la frettolosità della formulazione, accogliendo l’applicazione integrale del principio di trasparenza già disciplinato in senso ampio dall’attuale Codice dei contratti pubblici (art. 29) al quale il decreto vuole derogare. La trasparenza amministrativa è infatti un principio inderogabile del diritto UE (art. 42 della Carta dei diritti fondamentali). E’ un principio considerato dalle nostre massime giurisdizioni una «fisiologica conseguenza dell’evidenza pubblica», cioè dell’azione della Pubblica Amministrazione (Consiglio di Stato: sentenza 10 del 2020). E’ dunque principio generale accolto dalla disciplina italiana (d.lgs. 33 del 2013). Esso consente al cittadino di conoscere per esempio quanto costa un’opera pubblica, quanto spende il proprio Comune per consulenze esterne, quanto sia lo scostamento nei tempi di esecuzione di un contratto. Permette di decidere se continuare a dare fiducia ai propri governanti o se toglier loro il proprio voto.

In ultimo: tralasciando altre criticità, il decreto perde un’occasione importante, quella di prendere finalmente in mano la questione della qualificazione delle “stazioni appaltanti”, cioè dell’ente pubblico che acquista servizi, lavori, forniture (oggi sono circa … 36.000!). L’obiettivo di ridurle a circa 3.000 implicitamente sta già, ignorato, nel Codice dei contratti pubblici (art. 38.2) in connessione con le esigenze, trascurate, della loro sempre maggior qualificazione. Ora la sfida è appunto di professionalizzare al massimo riducendo al minimo necessario il numero di questi enti. Se non lo si vuol fare, almeno si segua la via, suggerita dall’ANAC il 27 maggio scorso, di investire risorse pubbliche sul miglior adeguamento professionale (e correlata ampia digitalizzazione) solo di alcune stazioni appaltanti in grado di determinare in capo a molti meno soggetti la competenza a svolgere le funzioni di acquisto di lavori, servizi o forniture. Il cittadino dovrebbe comprendere che risponde a esigenze di efficacia ed efficienza, per esempio, che il proprio piccolo Comune di residenza programmi e metta a bilancio un’opera, ma lasciandone la cura dell’affidamento e dell’esecuzione a una stazione appaltante più grande (con più dipendenti, quindi maggiori competenze tecniche e adeguata digitalizzazione). Inoltre bisognerebbe procedere all’attività di periodica valutazione della performance dell’azione pubblica.

L’art. 8.5 del decreto non sembra in linea con questo obiettivo, e nemmeno con lo scopo di semplificare, anzi appesantendo, le procedure di affidamento.

Almeno un aspetto positivo il decreto lo presenta, ma dovrebbe essere valorizzato maggiormente dal Parlamento in sede di conversione: l’uso delle piattaforme telematiche per avviare verso la piena digitalizzazione la Pubblica Amministrazione italiana. L’ultimo rapporto della Commissione europea situa il nostro Paese al 25° posto (su 28 Stati e in discesa di due posizioni rispetto al rapporto del 2019) nel grado di digitalizzazione dell’economia e della società globalmente (giugno 2020/statistica DESI: Indice di digitalizzazione dell’economia e della società, https://ec.europa.eu/digital-single-market/en/desi), e lo situa al 19° posto quanto al livello di digitalizzazione della Pubblica Amministrazione. Il Legislatore dovrebbe “aprire” a un serio importante investimento di risorse anche finanziarie nella PA italiana per la sua digitalizzazione: MES e Recovery Fund sono due strumenti strategici, andando a integrare il quadro finanziario pluriennale UE (2021-2027) che andrà approvato dopo l’estate.

Continua a leggere

Ultime News

Scrivi un commento

Controlla la tua e-mail per un collegamento per attivare il tuo account.