Di Gianfranco Franchi
La disuguaglianza è fertile. È fertile perché costringe a un confronto con l'alterità, spinge alla speculazione – in senso stretto: spinge a riflettersi nel prossimo – e obbliga alla meditazione. La disuguaglianza, così come ogni forma di scompenso, è madre di disordine e di vitalità: sprigiona fame di intelligenza, pretende fantasia e creatività, impone un almeno provvisorio adattamento alla realtà. Non è detto che la disuguaglianza vada contestata: da certi punti di vista, dove più debole o addirittura poco rilevante, andrebbe paradossalmente addirittura innestata, per restituire colore, vivacità e imprevedibilità. Io sono un uomo d'ordine e forse proprio per questa ragione ho un'estrema simpatia per l'intelligenza del disordine – per le sue dinamiche, per la sua segreta potenza. Riconosco al disordine, in ogni sua espressione, una straordinaria utilità. Non è soltanto per via della creatività che ne deriva o almeno ne può derivare. In un certo senso, se non ci fosse un'aristocrazia, noi dovremmo reinventarla; se non ci fosse un'oligarchia noi dovremmo simularla; se non ci fossero ingiustizie, noi dovremmo immaginarle. Qui in Europa Mediterranea abbiamo relegato la memoria a essere talento e patrimonio di pochi; fingiamo di essere nuovi una generazione dopo l'altra, o giù di lì; ogni volta ci perdiamo per strada, con la morte delle generazioni precedenti, una parte di coscienza e di consapevolezza, a volte estremamente estesa. Invece dovremmo ricordarci che apparteniamo a popoli antichi, a volte antichissimi, e a culture a volte millenarie; che certe dinamiche economiche e sociali si sono ripetute, con poche varianti (e per lo più tecnologiche) nel corso delle epoche; che ogniqualvolta qualcuno s'è battuto per l'uguaglianza allora ci si è trovati, di lì a poco, a vivere in un regime, un regime che limitava terribilmente la libertà individuale o di gruppo (etnico; sociale; culturale, in genere).
Io credo nella disuguaglianza perché so che ogniqualvolta qualcuno di noi si arma di quelle parola per rivendicare qualcosa (qualcosa di cui è stato privato; qualcosa di essenziale e di perduto o di inavvicinabile) allora deve, per prima cosa, ammettere in che senso la sua condizione prevede una "disuguaglianza a suo vantaggio". I nostri amici di +Europa, "Più Europa, per un'Italia libera e democratica" stanno dibattendo sulla disuguaglianza generazionale. Bene: come tutti i quarantenni potrei cominciare a deprecare l'abissale dislivello tra la mia generazione e le due generazioni precedenti: potrei mettermi a spiegare che certe condizioni contrattuali per noi sono ormai diventate mitologiche, che certe forme di stabilità sono improbabili come un vecchio tredici al totocalcio, che certi mestieri sono stati letteralmente disintegrati tra una generazione e l'altra, e così le culture che quei mestieri e quelle arti si tramandavano; potrei concionare sulla destabilizzazione derivata dalla delirante tassazione italiana sulle abitazioni sulle nostre (frequenti) radici popolari e paesane, potrei questionare sulla catastrofe antropologica dettata dalla trasformazione del centro storico di Roma, Venezia e Firenze in Disneyland, a beneficio soprattutto dei nostri amici angloamericani, malati di turismo, con la conseguenza di un inevitabile spostamento degli abitanti al di là dei millenari centri abitati, tutti extra moenia; potrei addirittura piangere la sparizione di un'intera classe politica e di un microcosmo culturalmente e politicamente essenziale, quello dei partiti di massa, uno dei pochi "ascensori sociali" meritocratici dell'Italia repubblicana, distrutto a inizio anni Novanta; potrei contestare l'abnorme e amorale connivenza con certa speculazione edilizia, che ha trasformato Roma in una città totalmente illeggibile, abitata da quasi tre milioni di persone, costrette a vivere, nella maggioranza assoluta dei casi, in quartieri periferici considerati dormitorio o poco più, spogli di musei, di piazze, di monumenti (di storia: di romanità). Potrei, ma stavolta gioco a un altro gioco: si chiama il gioco della disuguaglianza a mio vantaggio.
La mia generazione passerà alla storia per due aspetti fondamentali, qui in Italia: siamo stati la prima generazione a diventare maggiorenne da cittadina europea; siamo stati la generazione "pioniera" di Internet. Siamo stati protagonisti e spettatori di due cambiamenti travolgenti: l'Europa e Internet. Spiegare Internet ormai non serve. Spiegare l'Europa, forse, sì.
Il nostro patriottismo italiano, repubblicano e democratico, ha potuto coesistere con un neonato patriottismo europeo; da un certo punto di vista, io ho imparato a essere patriota italiano e nazionalista europeo; mi sono sentito nazionalista e internazionalista al contempo, come diversi dei miei punti di riferimento (estetici: politici: artistici). È stata una potente trasformazione dal retrogusto antico. Antichissimo. Come cittadino europeo, ho imparato che la cortina di ferro che aveva ferito e offeso la mia gente – sì, io sono di madre istriana: vengo da una famiglia spezzata, da vari punti di vista, tra Ovest e cosiddetto Est Europa (cosiddetto "Est", davvero) – ho imparato che la cortina di ferro, dicevo, poteva e doveva essere sbracata; e che i muri, a Gorizia come a Berlino, potevano essere smantellati. Ho dimenticato la difficoltà di cambiare le lire in dinari o in franchi o in sterline: un bel giorno il bancomat ha cominciato a consegnarci banconote che valevano in tutta la nostra Europa, nella nostra Europa nazione. Una classe politica balorda e opportunista non ha sorvegliato a dovere il passaggio da lira ad euro, ma questa è un'altra storia. Ho detto che parlavo di disuguaglianza a mio vantaggio, a vantaggio della mia generazione.
Come cittadino europeo, ho osservato tanti miei coetanei scegliere di andare a cercare fortuna e lavoro in Inghilterra, in Germania, in Spagna, in Francia, in Irlanda, in Belgio; ho osservato migliorare le leggi italiane – soprattutto i controlli alimentari e farmaceutici, e quelli (mi piace pensare) atmosferici e ambientali. Ho spesso desiderato, da europeo, che la mia nuova nazione avesse un suo esercito e una sua univoca espressione: quando si trattava di difendere e tutelare i serbi, nei Balcani, quando si trattava di arginare o conciliare la crisi libica, nel Mediterraneo, quando si trattava di discutere coi russi, per spezzare il ghiaccio (quanta fame di disgelo, quanto saggio questo disgelo!) e per difendere i nostri ucraini dalle zampe dell'orso; ho desiderato che l'Europa avesse una guida quando ho potuto camminare per la povera Cipro, ferita da un'occupazione turca ormai emisecolare, da un genocidio culturale gravissimo.
Come cittadino europeo, mi sono accorto che la mia Italia, da sola, niente può contro gli imperialismi egemoni – angloamericano, cinese, russo. La mia Europa, invece, unita, può decidere: decidere e scegliere: decidere e scegliere con chi allearsi; decidere e scegliere chi considerare antagonista. Io non voglio che i miei figli crescano "angloamericani"; non voglio crescano nemmeno russi o peggio cinesi (al limite "tibetani"!). Voglio che le culture degli imperialismi egemoni possano essere studiate e scandagliate: non voglio che nessuna di esse possa dominarci.
Voglio essere libero. Da italiano non posso più. Da europeo, sì.
Gianicolo, 21 gennaio 2020