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Covid-19: cari Conte e Fontana, impariamo dai nostri errori

Di Giordano Masini

Caro Presidente Conte, caro Presidente Fontana,

abbiamo sentito ripetere tante volte nelle ultime settimane che l’Italia è un modello nel contrasto a Covid-19, preso ad esempio dagli altri paesi che ci avrebbero imitato nelle strategie messe in campo. Temo che questo sia un giudizio frettoloso, e che possa essere espresso ormai solo per la fase dell’emergenza che stiamo affrontando: molti paesi hanno infatti disposto dei lockdown simili al nostro per ottenere quel distanziamento sociale indispensabile per abbassare, come si dice, la curva dei contagi e quindi per allentare la pressione su ospedali e strutture sanitarie, e contenere il più possibile le perdite di vite umane.

Ma prima di tutto questo, prima della fase dell’emergenza più acuta, è stato fatto tutto il necessario per non arrivare al punto in cui siamo arrivati, nel modo in cui ci siamo arrivati? Permetteteci, col rispetto che dobbiamo al carico di responsabilità che oggi vi trovate a sostenere, e che nessuno davvero vi invidia, di avere qualche dubbio.

Nei cassetti del Ministero della Salute giace il Piano Pandemico Nazionale. Ce ne dovrebbe essere uno simile in ogni regione, e raccoglie ed elenca tutte le procedure da mettere in atto per contenere una pandemia potenzialmente letale. È un documento, come è giusto che sia, lungo e complesso, ma anche molto chiaro, seppure in molte parti un po’ datato.

Ad esempio vi leggiamo che al Governo e alle Regioni, nelle fasi interpandemiche e di allerta (ovvero quando il rischio è ancora molto basso), è demandato il compito di assicurare adeguati approvvigionamenti di dispositivi di protezione individuale, sia per il personale medico e sanitario che per le categorie più esposte per ragioni professionali. Eppure oggi vediamo come la mancanza di mascherine e altri dispositivi sia all’origine della grave Caporetto degli ospedali e delle case di cura che, nonostante gli sforzi sovrumani ed eroici di chi vi lavora, sono diventati i luoghi in cui il contagio si è diffuso di più, e più rapidamente, soprattutto tra chi doveva essere più tutelato: medici, personale sanitario, pazienti ricoverati per altre patologie, anziani lungodegenti.

È sempre il Piano Pandemico a indicare come prioritario il monitoraggio della disponibilità dei posti letto, delle attrezzature, l’individuazione di strutture esterne agli ospedali stessi in cui isolare i contagiati non gravi dal resto delle loro famiglie, come pure i guariti ancora potenzialmente infettivi. È lo stesso piano a parlare dell’importanza di fornire adeguate e aggiornate linee guida ai medici, soprattutto ai medici di famiglia, che oggi invece lamentano un totale abbandono.

Il piano si fonda sulla previsione di una gestione unitaria del fenomeno pandemico, pur nelle sue diverse caratteristiche territoriali, mentre in Italia abbiamo assistito al contrario, cioè alla scelta di ciascuna regione di quale strategia di intervento adottare, sia rispetto al tracciamento dei contagi sia rispetto al modello di cura. Così abbiamo regioni che hanno fatto una diversa “politica dei tamponi” e un’opposta gestione dei casi critici con diversissimi livelli di ospedalizzazione, e ottenuto risultati molto diversi, in alcuni casi incoraggianti, in altri particolarmente sconfortanti. Nel piano si parla inoltre dell’importanza decisiva di una comunicazione istituzionale chiara e coerente: quante volte abbiamo invece sentito proprio il Governo e la Regione Lombardia dare indicazioni contraddittorie, a partire da informazioni basilari?

Non è necessario essere esperti in epidemiologia per leggere un simile documento, e comprenderne il valore, quindi oggi ci chiediamo, e chiediamo a voi: cosa non ha funzionato? Tra la fine di dicembre, quando il virus è comparso a Wuhan, e la metà di febbraio, quando il paziente 1 è arrivato al pronto soccorso di Codogno, non si è parlato altro che del nuovo Coronavirus, e della sua potenziale minaccia per tutti noi. Oggi, dopo aver ascoltato il grido di dolore di molti addetti ai lavori, medici e scienziati, dopo aver letto di come il “caso italiano” nella comunità scientifica venga preso a modello, sì, ma di cosa NON bisogna fare nell’imminenza di una pandemia, ci pare doveroso chiederci e chiedervi cosa è successo in quel lasso di tempo in cui i piani pandemici prevedevano l’attuazione rapida di procedure precise per arginare la minaccia incombente, prima che questo spaventoso tsunami ci piombasse addosso. Dire “non c’erano abbastanza posti in terapia intensiva” è tanto vero quanto non sufficiente: perché la corsa contro il tempo per allestirne di nuovi non è cominciata prima? Non si è forse agito con ritardo in molti ambiti cruciali?

Non lo chiediamo con l’ossessione, che pure molti oggi hanno, di trovare un “colpevole”, un capro espiatorio. Si potrebbe dire “ne parleremo dopo”. Certo, ma se oggi altri imparano dai nostri errori, possiamo farlo anche noi. La trasparenza e il senso di responsabilità che sapremo mettere in campo oggi ci consentiranno di guardare al domani non con disperazione ma con fiducia e con spirito costruttivo, e di individuare per il futuro, a partire da questo momento drammatico fino alla ricostruzione economica, sociale e civile che dovrà poi seguire, le soluzioni che i nostri concittadini attendono.

Viviamo in una democrazia sospesa, e siamo tutti disposti, seppure con molta preoccupazione, a rinunciare oggi a molte cose in nome dell’urgenza di proteggere vite umane. Un’intera generazione sta oggi rischiando la vita e sta pagando un prezzo incalcolabile in termini di lutti e di dolore. A questa generazione, a tutti gli italiani oggi chiusi in casa, dobbiamo delle risposte responsabili e trasparenti.

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