di Massimiliano Melley
L’emergenza Coronavirus, dalla quale usciremo rispettando i suggerimenti della comunità scientifica e le conseguenti, pur drastiche, decisioni a cui siamo sottoposti, sta provocando indirettamente gravissimi disagi all’economia del Paese e non solo della nuova “zona rossa”, ampliata a tutta la Lombardia e a diverse altre province.
Molti settori economici sono in ginocchio. Tra i più gravemente colpiti dai provvedimenti del governo, quello dello spettacolo (in particolare dal vivo). Ne parliamo per due ragioni: la prima è che non se ne parla granché, mentre nelle scorse settimane ci si è molto concentrati su bar, ristoranti, locali pubblici, discoteche; la seconda è che la particolare modalità organizzativa e gestionale del business dello spettacolo dal vivo fa sì che i provvedimenti del governo, che pure condividiamo nello stato di emergenza, comportino conseguenze economiche devastanti per tutto il settore, con l’azzeramento dei compensi per tantissime figure professionali, molte delle quali di carattere precario.
Prima dell’8 marzo gli spettacoli fuori dalla vecchia “zona rossa” erano consentiti a patto di rispettare la distanza di sicurezza; questo di fatto ha chiuso i teatri e gli altri luoghi di rappresentazione da diverse settimane. Contrariamente al cinema (che peraltro ha costi di esercizio nettamente inferiori), lo spettacolo dal vivo si nutre quasi esclusivamente di biglietti in prevendita. Ridurre la capienza degli spazi per rispettare la distanza prescritta avrebbe significato perdere dai 4 ai 7 posti per ogni spettatore, riducendo di molto la capienza effettiva. In presenza di biglietti già venduti, si sarebbe dovuto discriminare gli ingressi sulla base di criteri impossibili da definire. Ecco perché, già con il rispetto della distanza, i teatri di fatto sono stati chiusi. Il decreto dell’8 marzo, sospendendo gli spettacoli in tutto il Paese, non fa che certificare ciò che stava già avvenendo.
La stagione dello spettacolo dal vivo (tranne che in luoghi all’aperto) si “chiude” però con la primavera, perché gli spettatori tendono a diradare la fruizione durante i mesi più caldi. Se anche i provvedimenti emergenziali terminassero effettivamente il 3 aprile, potrebbe verificarsi un “fuggi fuggi” di spettatori nei mesi successivi per gli spettacoli già in programma; e la riprogrammazione degli spettacoli che sarebbero andati in scena ora è impossibile perché si accavallerebbe con programmazioni già predisposte per la prossima stagione.
Il provvedimento di sospensione degli spettacoli si traduce quindi in una perdita secca di cash flow che sarà estremamente difficile recuperare. Ma questo ha conseguenze devastanti su una serie di categorie professionali che, in massima parte, non beneficiano di contratti di lavoro subordinato. Gli artisti, molti dei quali non sono milionari, vengono pagati per giornate lavorative, e questo vale anche per tutta la macchina organizzativa di contorno: dai trasportatori ai facchini, dai tecnici alle maschere. Lo spettacolo dal vivo è consentito dal lavoro di decine e a volte alcune centinaia di persone che, in mancanza di rappresentazioni, si vedono azzerate le entrate reddituali. All’industria dello spettacolo, dal suo canto, viene a mancare quell’indispensabile flusso di cassa con il serio rischio di non avere più la forza (una volta finita l’emergenza Coronavirus) di riaprire. E sono ovviamente in pericolo anche gli stipendi dei lavoratori dipendenti di teatri, compagnie, case di produzione.
Come per altri settori economici, è quindi indispensabile che il Governo adotti, in tempi urgentissimi, provvedimenti di mitigazione per lo spettacolo dal vivo senza i quali molti operatori potrebbero non riprendersi. Alcuni impresari hanno suggerito soluzioni creative, come la trasmissione televisiva (ad opera della Rai o di gruppi privati) di spettacoli da teatri chiusi, consentendo almeno in quei casi un pur marginale respiro economico per artisti e tecnici. Ma, se non una iniezione di liquidità, si provveda almeno a sospendere il versamento degli F/24 (17 marzo), degli oneri come l’Iva, le tasse comunali, la Siae o anche le imposte, le ritenute e gli adempimenti tributari (come previsto fino al 30 ottobre per il turistico-alberghiero); si concedano garanzie per l’accesso al credito facilitato; e, magari, si colga l’occasione per ripensare l’accesso agli ammortizzatori sociali (come Naspi e Fondo di Integrazione Salariale), già oggi non molto adeguati alle specificità dell’industria, non solo per i dipendenti ma anche per i lavoratori intermittenti, tipici in questo campo, la cui fonte reddituale è totalmente compromessa dalla sospensione degli spettacoli.