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Caso Lara Lugli e sport italiano femminile. Prime Donne intervista Luisa Rizzitelli

In seguito alla notizia della pallavolista Lara Lugli, Prime Donne ha intervistato Luisa Rizzitelli, Presidente della Associazione Nazionale Atlete Assist.

Facciamo chiarezza:

Quando è uscita la notizia lei è rimasta sorpresa o sono cose che accadono spesso?

Quando abbiamo visto il post di Lara l’abbiamo subito incoraggiata e ringraziata per il suo coraggio però non ci stupisce per niente. È già capitato che altre atlete siano state minacciate di essere citate per danni ma mai visto una citazione così,nero su bianco, come poi Lara ha pubblicato. Siamo abituatissimi purtroppo a sapere che le atlete vengono mandate a casa quando sono incinta e sappiamo benissimo che, nonostante le denunce che con Assist facciamo dal 2000 (quindi parliamo di 21 anni fa) le clausole anti maternità sono una triste consuetudine, a volte è scritta come lo era in questo caso. Altre volte non hanno neanche bisogno di scriverlo, negli accordi non c'è nulla a riguardo ma tutti sanno che se l'atleta è incinta il contratto verrà risolto. Quindi non siamo stati stupiti per niente, però nel caso di Lara c’era questa aggravante veramente pazzesca della citazione per danni.

Ma queste clausole che tipo di formula hanno? Sono contrattuali?

Purtroppo non sono contrattuali, perché non sono nell'ambito di un contratto. Dobbiamo sapere che nello sport italiano nessuna atleta ha diritto a essere trattata come una lavoratrice ed è questa la nostra grande battaglia. Sono tutte considerate dilettanti e non possono usare una legge dello Stato che è quella sul professionismo sportivo. Una situazione scandalosa dovuta al fatto che questa legge sul professionismo ha lasciato alle federazioni sportive nazionali il compito di decidere se la propria disciplina è o meno professionistica. Quindi se professionistica viene trattata come un lavoro se non lo è viene trattata come una qualsiasi prestazione come quella che potremmo fare noi andando a correre la domenica. Non essendo considerato un lavoro se io faccio un accordo con il mio club lo faccio soltanto attraverso una scrittura privata o degli accordi finanziari che però sono tra due parti private. Non sono un contratto tipo, non sono assolutamente un rapporto di lavoro costituito. Tra l’altro l’aggravante è che la legge 91, che lascia alle federazioni il compito di decidere quali siano le discipline professionistiche, ha fatto sì che oggi ci siano solo quattro sport che sono professionistici: tutti solo al maschile. Questa è una cosa ancora più vergognosa perché le atlete donne delle stesse quattro discipline non sono tutelate in niente a differenza dei colleghi uomini.

Solitamente qual è il modo in cui le atlete gestiscono la maternità? È un timore o la vivono serenamente?

Non la vivono serenamente per niente. Procrastinano continuamente la maternità perché sanno bene che perderanno lo stipendio per un anno e che, al momento, non ci sono delle politiche reali nei club per gestire volentieri la situazione di un atleta madre. L’atleta madre è un’atleta che ha un bambino e delle esigenze diverse, quindi quello che succede di solito è l’atleta cerca di rimandare il più possibile questo evento. Una cosa totalmente ingiusta e che riteniamo sia un grave danno per chi fa sport per vivere, perché avrebbe tutto il diritto di poter avere un figlio ed essere protetta. Rispetto a questo noi con Assist ci siamo battuti e un paio di anni fa abbiamo ottenuto di avere l’istituzione di un contributo statale che consente alle atlete di avere 1.000 € per 10 mesi. Parliamo di un palliativo, sicuramente la realtà è che le atlete sanno che la maternità non è sicuramente una buona notizia per il club, non viene mai vissuta in maniera serena e quindi non sono mai serene anche loro.

In conclusione, secondo lei quali sono i cambiamenti necessari da un punto di vista strutturale e quindi legislativo?

Il cambiamento necessario è quello che stiamo chiedendo a gran voce con una campagna che si chiama “Io lo So” ed è una campagna che vuole sbugiardare il fatto che siamo tutti sorpresi che questa ragazza incinta abbia visto strappare in faccia il contratto. Questa campagna mira a promuovere l'unica soluzione per noi possibile e cioè: chi fa lo sport per lavoro, e quindi non tutti gli atleti ma solo quelli che vivono di sport devono ricevere le tutele elementari e costituzionalmente sancite per tutti i lavoratori. Vogliamo il riconoscimento del lavoro sportivo, non deciso dalle federazioni perché non devono essere i tuoi datori di lavoro a decidere se stai facendo un lavoro oppure no. Chiediamo che si parta dalla valutazione della natura della prestazione, se io sto facendo qualcosa per cui percepisco dei soldi e con cui vivo quello è un lavoro e devo avere tutte le tutele del caso, punto. Questa cosa ha un costo per i club, e siamo tutti d'accordo, quindi bisogna sedersi ad un tavolo e decidere dove trovare le risorse per accompagnare questo cambiamento. Però è ora di finirla, non è più tollerabile quello che stiamo vedendo.

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