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Cara ministra Roccella, lo Stato non può mai decidere per le donne

La ministra della Famiglia, natalità e Pari opportunità, Eugenia Roccella, è stata una radicale, ha avuto giovinezza radicale, e poi ha cambiato idea e riflessioni. Non da oggi, non da ieri: la ricordo su Eluana Englaro, nel 2009, quando disse che «abbiamo la libertà di fare qualunque cosa del nostro corpo, ma non il diritto: se considero che suicidarmi è un diritto, è giusto che nessuno blocchi più nessuno dal suicidarsi», ed era sottosegretario al Welfare; la ricordo sulla procreazione assistita. Oggi, incarna perfettamente la policy e l’esposizione del premier Giorgia Meloni e pertanto, per me, è un’avversaria da rispettare e da combattere. Non apprezzo, tuttavia, l’accanimento su di lei: abbiamo davanti a noi un esecutivo che non sarà aperto sui diritti, e non possiamo sperare di affrontarlo con insulti e attacchi continui. Dobbiamo, invece, attrezzarci per lottare, adeguando la lotta al rispetto.

Ho incontrato Eugenia Roccella pochissime volte, quando entrambe frequentavamo il Partito Radicale, negli anni Settanta: io ero molto attiva nelle battaglie per l’aborto; lei faceva già parte del Movimento di Liberazione della donna. Ed era, come tutte le attiviste di quel gruppo in quegli anni, molto preparata e accurata. Roccella ha scritto ieri sulla Stampa che, all’epoca, nelle riunioni del partito sull’aborto, le femministe contestavano ai radicali di voler tradire il loro slogan, «nessuna legge sul nostro corpo». I miei ricordi sono diversi. Penso a Mauro Mellini, che anziché dire per intero «aborto libero e gratuito», lo slogan di radicali e femministe, si fermava a «libero», ma non ho in mente altre divergenze o contestazioni. Certo, nel movimento femminista ci sono sempre state anime diverse, pensieri diversi, ma quando l’obiettivo era chiedere che venisse legalizzata l’interruzione volontaria di gravidanza per liberarci dalla piaga dell’aborto clandestino, ci fu unità anche con chi pensava che abortire fosse il modo più invasivo per garantire alle donne il diritto di scegliere come e se diventare madri.

Non capisco cosa intendano, Roccella e Meloni, quando dicono di non voler toccare la legge 194 e di voler, tuttavia, garantire anche il diritto a non abortire: il diritto non è mai un obbligo, pertanto chi non vuole abortire, non abortisce, così come chi non vuole divorziare, non divorzia. C’è un unico principio da tenere fermo, quando si riprende la discussione sulla vita e sul momento in cui si comincia a essere persone: le donne devono poter scegliere la maternità. Il feto è vita? Sicuramente. Ma anche il sangue lo è.

Non capisco nemmeno cosa significhi che l’aborto è il «lato oscuro della maternità», come ha scritto Roccella: per alcune donne è doloroso, per altre no; per alcune è una scelta obbligata da condizioni esterne, per altre un fatto intimo. Perché mai lo Stato dovrebbe sindacare ed entrare così a fondo nella vita delle cittadine? La 194 è stata una legge di compromesso, fatta per evitare il referendum e pure per consentire alla Dc di votare contro, ma senza strapparsi le vesti. In alcune sue parti contiene dei controsensi: stabilisce, per esempio, che abortire in una struttura pubblica non è reato, mentre lo è farlo in una struttura privata, che è come dire che rubare non è reato in una piazza, ma è reato rubare in un appartamento. Ed è ipocrita la parte in cui stabilisce che una donna può abortire se è povera o in pericolo di vita: nessun consultorio può davvero verificare lo status economico di una paziente. Sono alcuni degli esempi che rendono quella legge, a 40 anni dalla sua approvazione, bisognosa di una revisione, ma quella revisione non può avvenire adesso, con questo governo in carica: rischieremmo di portarla ulteriormente indietro.

Ha scritto poi Roccella che «l’aborto non è un diritto ma la parte oscura della maternità», e ancora non capisco cosa intenda. Non c’è niente di oscuro nel disporre autonomamente del proprio corpo: è un diritto civile e sociale. L’errore più grave, in questi anni, anche a sinistra, è stato rimarcare una differenza tra diritti civili e diritti sociali, perché è una differenza che non esiste. Un uomo non è soltanto un lavoratore: è un padre, un marito, un fidanzato, un corpo che deve poter decidere quando morire.

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  • Pasquale Di Pace
    published this page in News 2022-10-25 10:04:49 +0200