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Altro che ambientalismo da salotto. Da Parigi una sfida per lo sviluppo europeo.

di Michele Governatori

Con le ratifiche dell’accordo di Parigi, oltre 180 Governi si sono impegnati a contenere in non più di 2 gradi l’aumento di temperatura del globo rispetto al livello pre-industriale.

Una decisione conseguente non a visioni ideologiche o catastrofistiche, ma alle indicazioni della comunità scientifica assunte dall’UNFCCC, il panel ONU che coordina le politiche mondiali sul clima. Secondo gli scienziati e l’ONU, ridurre il riscaldamento, e quindi le emissioni da combustione di fonti energetiche fossili, è la strada meno costosa tra quelle possibili.

Il cosiddetto “effetto serra” infatti dipende dalla concentrazione in atmosfera di alcuni gas, di cui il più diffuso è la CO2, la cui concentrazione in era preindustriale, pur con un andamento ciclico, non aveva mai superato le 300 parti per milione ed è invece schizzata a 400 in meno di un secolo.

Per questo ha senso considerare le emissioni di CO2 come un indicatore di insostenibilità climatica. Una strada che se da un lato non ci evita i costi di adattamento a cambiamenti del clima già in essere, dall’altro ci permetterà di non renderli tanto catastrofici da essere ingestibili sul piano economico, geopolitico, umano. Il Salvini che si disinteressa dell’ambiente forse dimentica che tra i profughi climatici ci potrebbero essere miliardi di africani il cui territorio rischia di diventare inabitabile.

Buona parte della comunità economica del mondo ha già orientato i propri investimenti verso un futuro senza energie fossili. Perfino le grandi major del petrolio, riunite nell’Oil and Gas Climate Initiative, hanno annunciato il proprio cambio di rotta e chiesto in modo coordinato segnali coerenti dalla politica. Dopo l’annuncio di Trump del ritiro dall’accordo, le più grandi aziende americane (tra cui Apple, Google, Twitter, Amazon, Facebook, Tesla, Microsoft e IBM) si sono dissociate dalla scelta del presidente. La stessa filiera del carbone americano, che Trump intendeva proteggere con la propria decisione, non ha invertito il trend di riduzione di investimenti e capacità.

L’Europa è stata il primo motore della sfida contro i cambiamenti climatici avversi e può ancora mantenere la leadership delle evoluzioni tecnologiche ed economiche necessarie per vincerla, e fare del proprio ruolo di innovatore fonte di prolungato benessere e ricchezza. Ma serve un’Europa più forte nel coordinamento delle politiche interne, perché nessuno Stato Membro da solo può proteggersi efficacemente dal “dumping” ecologico delle economie ancora fortemente legate alle energie fossili.

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