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La previdenza sostenibile

Di Elsa Fornero*

Il sistema previdenziale è l’istituzione che racchiude forse il principale contratto tra generazioni. Tale “contratto” non è però espressamente regolato dalla Costituzione, ma è affidato alla legislazione ordinaria, spesso ispirata non già da visioni di lungo termine, bensì da obiettivi definiti all’interno di stretti orizzonti elettorali. Entro questi angusti orizzonti, la politica trova ampi spazi per interventi discrezionali che finiscono per favorire le generazioni anziane, che hanno un peso elettorale preponderante in una società che invecchia.

I rapporti economici tra generazioni assumono diverse forme. Sul versante positivo, i giovani ereditano dalle generazioni passate la ricchezza accumulata: dal capitale umano (conoscenza, educazione) a quello finanziario (titoli di credito e di proprietà); dal capitale fisico (capacità produttiva) a quello pubblico (l’ambiente, le infrastrutture, i beni artistici). Sul versante negativo, si collocano le varie modalità in cui si può accumulare debito pubblico: il debito propriamente detto, costituito dalle promesse di pagamento racchiuse nei vari BOT, CCT, BTP, CTZ, oggi ammontanti a oltre 2.200 miliardi di euro (circa il 130 per cento di quanto il Paese produce in un anno).

Accanto a questo debito “esplicito” esiste però anche un debito “implicito”, rappresentato non già da titoli vendibili sul mercato, bensì da oneri che si trasmettono alle generazioni giovani e future, sotto forma, per esempio, di deterioramento dell’ambiente (il cosiddetto “debito ambientale”) e, più ancora, di promesse alle quali non corrispondono versamenti equivalenti da parte dei beneficiari. In particolare, quando benefici sganciati dai costi sono attribuiti a un’intera generazione, è evidente che il costo è traslato su quelle che verranno dopo. È ciò che è avvenuto con una certa larghezza in passato, almeno a giudicare dalla differenza, in media, tra i benefici attribuiti e i contributi richiesti. In economia, tuttavia, la generosità non è gratuita: qualcuno se ne deve sobbarcare l’onere e, come per il rimborso del debito, questo qualcuno è in larga misura rappresentato proprio dalle generazioni giovani e future.

Il sistema previdenziale è l’istituzione che racchiude forse il principale contratto tra generazioni. In questo contratto i giovani (in realtà gli “attivi”) versano contributi, sui loro redditi da lavoro, destinati a finanziare, nello stesso periodo, le pensioni di coloro che il lavoro l’hanno già lasciato, per quiescenza. La partecipazione al sistema è obbligatoria perché il contratto regge proprio sulla fiducia, della quale lo Stato si fa garante, che anche i giovani di domani parteciperanno, versando contributi che serviranno, a loro volta, a finanziare le pensioni dei lavoratori di oggi. Una specie di “catena di Sant’Antonio” la cui continuità non può che scaturire da una architettura equilibrata, nella quale gli interessi delle generazioni giovani e future siano non meno rappresentati di quelli delle generazioni presenti.

Tale “contratto” non è però espressamente regolato dalla Costituzione, ma è affidato alla legislazione ordinaria, spesso ispirata non già da visioni di lungo termine, bensì da obiettivi di partito (più che di Paese) definiti all’interno di stretti orizzonti elettorali. Entro questi angusti orizzonti, la politica trova ampi spazi per interventi discrezionali che finiscono per favorire le generazioni anziane, che hanno un peso elettorale preponderante in una società che invecchia. Questo significa affrontare un problema strutturale di lungo periodo – forse il più importante che abbiamo – sulla base di considerazioni e opportunità di breve periodo.

Il contratto, infatti, funziona egregiamente in un contesto di crescita demografica (nella quale cresce la frazione dei giovani rispetto a quella degli anziani) ed economica (con occupazione e redditi in salita). Esattamente ciò che manca all’Italia da un paio di decenni, cioè da ben prima della crisi finanziaria. In questo quadro di relativa stagnazione seguita poi dalla grande recessione, i diritti e le garanzie delle classi di età più elevate sono stati in larga misura preservati, ciò che ha comportato scaricare oneri e perdite sui meno garantiti, cioè esattamente sui giovani attuali e futuri. Se si considerano il forte aumento nei prossimi 2-3 decenni del numero degli anziani e la forte diminuzione del numero dei giovani, se ne deduce facilmente come politiche miopi siano sufficienti a mettere a rischio la sostenibilità del sistema.

L’invecchiamento dipende da un dato positivo, ossia la riduzione della mortalità a tutte (o quasi) le età, e da un dato negativo, ossia la diminuzione delle nascite. In particolare, secondo dati recenti dell’ISTAT, tra il 2008 e il 2016 le nascite sono diminuite di oltre 100 mila unità, per effetto della diminuzione della propensione ad avere figli ma soprattutto per effetto (per i tre quarti della differenza) dello stesso invecchiamento della popolazione femminile. Meno figli oggi vuol dire meno giovani lavoratori domani, e pertanto (a parità di altre condizioni) meno contributi da utilizzare per pagare pensioni e altri trasferimenti o servizi a una popolazione anziana in costante crescita. La “sostenibilità del sistema” è un modo gentile per indicare la possibilità di pagare le pensioni e la sicurezza che i risparmi investiti in titoli pubblici non andranno perduti.

Alla decrescita demografica si aggiunge, per i giovani, la precarietà occupazionale e di reddito. Non solo i giovani hanno meno garanzie (che forse neppure cercano), ma soprattutto hanno meno opportunità di lavoro e di reddito, e sono spinti sempre più verso l’estero, nella speranza di trovare lì le chances che non trovano più in patria. La povertà riguarda oggi circa il 4 per cento degli italiani con più di 65 anni ma raggiunge il 12 per cento tra i giovani sotto i 18 anni. E si tratta di un dato in costante aumento nell’ultimo decennio: dal 4 per cento di poveri nella classe di età 18-34 del 2005 si passa al 10 per cento del 2015.

L’impoverimento dei giovani rispetto agli anziani è il contrario del progresso di una società, e ne segna il declino. Esso non dipende però, come qualcuno vorrebbe far credere, dalle riforme previdenziali che, avendo alzato l’età di pensionamento, hanno comportato un più elevato tasso di occupazione degli anziani (obiettivo peraltro sempre indicato, prima della riforma del 2011, come una priorità per il Paese!). Dipende, in larga misura, dall’evoluzione tecnologica (la digital economy ha indubbiamente polarizzato il mercato del lavoro, creando pochi posti di alto livello e alta remunerazione e spingendo molti giovani verso occupazioni di qualità e reddito relativamente bassi); dal mis-match tra domanda e offerta di lavoro, incoraggiato anche dallo scarso dialogo tra il mondo dell’istruzione e quello produttivo; e dalle segmentazioni tuttora presenti nel mercato del lavoro. Le politiche di attivazione, che devono aiutare i giovani verso un inserimento rapido ed efficace nel mondo del lavoro, sono rimaste colpevolmente indietro.

Riforme importanti sono state introdotte, anche grazie alla pressione delle istituzioni internazionali. Le riforme, però, non nascono mai perfette e richiedono un po’ di tempo prima di essere assimilate e di produrre effetti. Il sistema previdenziale italiano è finanziariamente sostenibile (siamo l’unico Paese in cui la spesa pensionistica in rapporto al Pil non cresce, nel lungo termine, nonostante l’invecchiamento). Il mercato del lavoro si sta risvegliando, con occupazione e redditi in crescita.

Tutto può certo essere migliorato: l’importante è non innestare retromarce, che significherebbero un nuovo allontanamento dell’Italia dall’Europa. E qui sta il rischio: che l’impazienza dei cittadini e, soprattutto, dei politici interessati soltanto alle prossime elezioni possa determinare retromarce. I nuovi legislatori avranno la forte responsabilità di non buttar via il bambino, ossia il buono introdotto nel sistema, insieme con l’acqua sporca, che ancora abbonda.

Pubblicato su Strade, 1° febbraio 2018

*Elsa Fornero è stata professore ordinario di Economia politica presso l'Università di Torino e Ministro del Lavoro nel governo Monti. Nelle sue ricerche scientifiche ha approfondito, tra l'altro, i sistemi previdenziali pubblici e privati, le riforme previdenziali, l'invecchiamento della popolazione e le scelte di pensionamento. 
Parteciperà con uno speech a “Una generazione avanti, idee per l’Italia che verrà” il 18 gennaio a Bologna. 

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