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Più divieti, più aborti. Le leggi “pro-life” non sono anti-abortiste, ma maschiliste

di Silvja Manzi

Secondo uno studio dell’OMS pubblicato da Lancet, nel periodo 2010-2014 ci sono stati nel mondo circa 56 milioni di aborti all’anno, con un tasso di 35 aborti ogni 1000 donne tra i 15 e i 44 anni.

Nei paesi sviluppati (Europa, Nord America, Giappone, Australia e Nuova Zelanda) ci sono stati 27 aborti ogni 1000 donne, con una riduzione del 41% rispetto a vent’anni prima.

Nei Paesi meno sviluppati, invece, il tasso è di 37 aborti ogni 1000 donne ed è sostanzialmente stabile. I Paesi meno sviluppati sono anche quelli in cui generalmente è proibito o di fatto impedito il ricorso all’aborto legale .

Non esiste dunque alcuna correlazione positiva tra leggi proibizioniste sull’aborto e riduzione del numero degli aborti. A ridurre il numero di aborti sono variabili del tutto diverse: il livello di informazione, la parità sessuale e il controllo da parte delle donne dell’attività riproduttiva, attraverso la contraccezione. Si tratta delle stesse variabili socio-culturali – il ruolo femminile nella società e nella famiglia e il suo riconoscimento giuridico – che hanno portato alla legalizzazione dell’aborto nei Paesi più sviluppati.

La campagna pro-life, di cui la legge dell’Alabama è stato un esempio eclatante ma non isolato – solo nell’ultimo anno 16 dei 50 stati Usa hanno introdotto delle misure restrittive sull’aborto – non ha quindi alcuna giustificazione “anti-abortista”. Il fronte pro-life negli Stati Uniti e altrove nel mondo sviluppato non è composto, per lo più, da uomini di fede e di specchiato esempio morale, ma da populisti – tipi come Trump o Salvini o la sinistra compagine di fanatici che ha animato il Congresso mondiale delle famiglie di Verona – che usano il pretesto “religioso”, in genere rigidamente circoscritto al solo tema familiare, per fare i conti con i nemici dell’ordine sociale tradizionale. E il primo nemico sono proprio le donne emancipate, quelle che non stanno al "posto loro".

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