Articolo di Valerio Federico
Quante volte abbiamo sentito dire che una cosa è l’economia reale, fatta di produzione, lavoratori e salari, altra è la finanza, fatta di borse e speculazioni, un po’ come se l’andamento dei mercati riguardi solo guadagni per chi ha soldi da investire o interessi da pagare per i Paesi che piazzano i loro titoli.
Eppure se l’andamento dei mercati azionari non rispecchia direttamente la forza economica di un Paese, misurata nel proprio Pil - almeno nei tempi e nelle proporzioni - un legame chiaro, inconfutabile c’è, ed è quello tra gli utili delle imprese e l’andamento del mercato azionario dove queste sono quotate.
Nel medio e lungo periodo le borse crescono se crescono gli utili delle imprese e un’impresa a forte produttività ha utili alti, attrae investimenti finanziari, garantisce redditività agli investitori e, nell’«economia reale», assicura occupazione e salari più alti e di conseguenza consumi e crescita nel proprio Paese.
L’esempio clamoroso è quello delle big tech americane con livelli di produttività e utili senza eguali che trascinano gli indici Usa da una quindicina d’anni e con loro l’«economia reale» della prima potenza mondiale, fatta di occupazione piena e alti salari. Lo straordinario sviluppo dei mercati azionari Usa ha naturalmente portato con sé risorse finanziarie anche per le altre imprese quotate così come per fondi e strumenti finanziari vari, e redditività per piccoli e grandi investitori. I mercati azionari sono anche condizionati dalle scelte macroeconomiche dei Paesi di riferimento e dalla condizione della loro economia reale: le aspettative degli investitori nel medio e lungo periodo - quindi al netto di fluttuazioni e rimbalzi di carattere essenzialmente speculativo - rispecchiano certamente le potenzialità e le performance del tessuto produttivo di un Paese, e finiscono per premiare l’alta produttività del lavoro espressa dalle imprese quotate.
Anche per i motivi espressi sono dunque sfide politiche centrali, per il nostro Paese e per l’Europa, quelle di una crescita della produttività del lavoro e della conseguente marginalità per larghi settori del tessuto produttivo italiano e continentale così come la creazione di un mercato unico europeo dei capitali, forte e competitivo, capace di intercettare capitali in cerca di casa.
In riferimento al peso delle scelte macroeconomiche sui mercati azionari non è difficile considerare ad esempio il richiamo di Trump ad una prossima introduzione di dazi come uno dei fattori alla base di un rallentamento degli indici Usa in questo 2025 con spostamento consistente di capitali sulle borse europee e su quella cinese (Indici cinesi +17%, spagnoli +14, tedeschi ed italiani +13, indice MSCI USA +2%). Certamente pesano anche i valori dei titoli azionari Usa cresciuti a dismisura ma un mercato dei capitali unico europeo con imprese quotate ad alta marginalità oggi sarebbe un approdo ancor più sicuro e promettente per investitori in uscita dal mercato Usa.