di Riccardo Magi
Il decreto non prende di petto la questione salariale, che al momento, vista la persistenza dell’alta inflazione rappresenta la principale criticità dell'economia italiana che per il resto appare in ottima salute visto la crescita oltre ogni più rosea aspettativa.
Ad oggi ancora milioni di lavoratori sono occupati in settori dove la contrattazione collettiva è fragile, con stipendi fermi e contratti scaduti anche dal 2015.
Per questi lavoratori, il Governo avrebbe dovuto prevedere strumenti fiscali di sostegno al rinnovo dei contratti e proporre disincentivi fiscali all'applicazione di questi contratti collettivi.
Il taglio al cuneo fiscale certamente è positivo, ma non si può ricorrere sempre alle risorse pubbliche per alzare artificialmente gli stipendi, occorre chiamare in causa le associazioni datoriali e sindacali perché questi contratti siano rinnovati.
La riforma sul reddito di cittadinanza che prevede la sua interruzione qualora arrivi un'offerta di lavoro a tempo determinato di almeno 12 mesi su tutto il territorio nazionale, per come funzionano i nostri centri per l'impiego appare ridicola prima che vessatoria verso i percettori.
A nostro parere, il modo migliore per incoraggiare al lavoro i percettori di politiche passive contro la povertà sarebbe ad esempio prevedere la possibilità di un parziale cumulo fra il sussidio ed il reddito da lavoro per un periodo di tempo congruo, così da disincentivare il ricorso al lavoro nero.
Sui tempi determinati la liberalizzazione fino a 24 mesi non è per forza da demonizzare, a patto però che si preveda un aggravio contributivo per le imprese che tengono i dipendenti così tanto tempo precari e che sia introdotto una sorta di ristoro a carico dell'impresa in favore di quei lavoratori che dopo 2 anni di contratto e tempo non vengono stabilizzati.