“La dimensione politica deve operare al fine di evitare che si crei una forte divaricazione fra sviluppo tecnologico e condizione umana, e deve ancorare lo sviluppo alla finalità di un maggiore benessere, premessa per una felicità fondata sui diritti umani allargati”
A cura di Paolo Costanzo, economista e autore del libro appena pubblicato da Bookabook “Italia al bivio”
Solo guardando ai diritti civili, sociali e ambientali si è in grado di misurare il grado di felicità, la distribuzione del benessere nella società e la sostenibilità nelle dimensioni sociali, economiche e ambientali. Non si ha crescita reale con un PIL in ascesa, cui non corrisponde un aumento del benessere della maggior parte dei cittadini e non si misura anche il degrado dell’ambiente e il depauperamento delle risorse naturali. Per tale ragione dovremmo rivedere le metriche che misurano la crescita, perché ciò che misuriamo influisce su ciò che facciamo. Se misuriamo la cosa sbagliata, domani faremo la cosa sbagliata; se non misuriamo qualcosa questo qualcosa viene ignorato come se il problema non esistesse. Se non misuriamo le disuguaglianze o il degrado ambientale è probabile che non ce ne occuperemo.
Il PIL rappresenta dal 1953 lo standard internazionale del Sistema dei conti nazionali per misurare la performance economica di un Paese. Le politiche pubbliche devono però essere guidate da un pannello di indicatori che informi delle condizioni materiali in cui vivono le persone e della qualità della loro esistenza, delle disuguaglianze e della sostenibilità. Lo stesso Bob Kennedy, nel suo famoso discorso all’Università del Kansas del 17 marzo 1968, affermò che il PIL include troppi mali che abbassano la qualità della vita ed esclude troppi beni che sono per noi essenziali.
Il cambiamento climatico rappresenta una minaccia per la nostra stessa esistenza e la nostra crescita economica, così come la misuriamo, non è sostenibile dall’ambiente. Se vogliamo consegnare alle future generazioni un contesto favorevole, sarà necessario che le Istituzioni, le aziende e gli attori politici e sociali assumano una visione di lungo periodo e una cultura che ponga la persona e l’ambiente al centro.
Bisogna quindi anche soffermarsi sulle reali modalità di crescita economica di un Paese. Il panorama internazionale conta paesi a crescita non inclusiva, a bassa crescita non inclusiva e a crescita inclusiva. I primi, e ne sono un esempio gli Stati Uniti e l’Inghilterra, si qualificano per la polarizzazione della ricchezza a causa dello scarso peso delle relazioni industriali e di una spesa sociale che tutela solo le condizioni di maggior disagio. La spesa pubblica per l’istruzione e la ricerca di questi paesi ha permesso lo sviluppo di imprese ad alta tecnologia che hanno contribuito alla crescita ma con grandi disuguaglianze. L’Italia è un esempio di Paesi a bassa crescita non inclusiva e anch’esso si qualifica per la polarizzazione della ricchezza. La spesa pubblica, in rapporto al PIL, è più alta di quella dei Paesi ad alta crescita non inclusiva ma è sbilanciata a favore delle politiche passive quali le pensioni e la tutela della disoccupazione solo per alcune categorie di lavoratori. La spesa sociale è poco efficace nella riduzione delle disuguaglianze per via della frammentazione verso alcune categorie ed è indirizzata da ragioni di consenso elettorale. La spesa pensionistica è la componente più rilevante e i costi si scaricano sulla finanza pubblica aumentando il debito pubblico e il deficit di bilancio. Questa redistribuzione poco efficace e molto costosa per le casse pubbliche penalizza la crescita perché sottrae risorse agli investimenti pubblici, in modo particolare alla formazione e alla ricerca. Le relazioni industriali non conferiscono rappresentanza ai gruppi sociali più deboli, in particolare quelli colpiti dai grandi cambiamenti economici, e non contribuisco alla crescita della produttività delle imprese. Nei Paesi dell’Europa continentale, invece, si registra una crescita inclusiva legata ad un rapporto equilibrato nelle relazioni industriali, nel welfare e nella spesa pubblica rivolta a istruzione, formazione e innovazione. Le Relazioni industriali sono caratterizzate dal peso della contrattazione collettiva e da tradizioni istituzionalizzate di concertazione centralizzata tra governi, organizzazioni imprenditoriali e sindacali per le politiche economiche e sociali. Le politiche attive del lavoro sono volte a favorire il lavoro femminile, la formazione e la riqualificazione del personale e a dare una maggiore tutela ai nuovi occupati nei servizi con rapporti di lavoro più discontinui. I maggiori costi delle imprese sono compensati dalle politiche di istruzione, formazione e innovazione che accrescono produttività e competitività.
Il nostro Paese si avvicina ai Paesi ad alta Crescita non inclusiva per ciò che concerne le disuguaglianze e ai Paesi ad alta crescita inclusiva per livello di spesa pubblica per politiche sociali, indicatori di presenza sindacale e relazioni industriali che però si rilevano inefficaci a causa della scarsa estensione degli interessi tutelati.
Il Paese avrebbe bisogno di uno sforzo collettivo volto ad invertire l’attuale scenario adottando i necessari quattro prassi istituzionali: 1) una maggiore responsabilizzazione da parte delle organizzazioni imprenditoriali e sindacali dal lato salariale e nelle domande indirizzate al sistema del welfare attraverso una concertazione a livello centrale; 2) la presenza di forme di partecipazione delle organizzazioni dei lavoratori nella governance delle imprese e nella crescita della produttività; 3) politiche di istruzione, formazione, ricerca e innovazione e l’offerta di servizi e infrastrutture che creino esternalità positive per le imprese; 4) un comportamento responsabile da parte dei partiti con riferimento ai costi delle rivendicazioni che si scaricano sul welfare e sulla sua efficacia redistributiva. Le Relazioni industriali dovrebbero essere volte (i) al sostegno all’occupazione, alla regolazione del lavoro a tempo determinato al fine di evitare abusi e eccessi accrescendone le tutele; (ii) alla riduzione della conflittualità e all’impegno a sostenere attivamente la produttività delle imprese. Tutto ciò presupporrebbe una partecipazione alla governance delle imprese sul modello tedesco che però si qualifica per un tessuto industriali di imprese di medio e grandi dimensioni. Nel nostro Paese sarebbe opportuno prevedere incentivi all’aggregazione e alla crescita dimensionale che peraltro è presupposto all’innovazione e alla formazione interna alle imprese.
Il riassetto del welfare dovrebbe prevedere: (i) l’accesso a prestazioni sociali quali la salute, l’istruzione e i servizi di cura per tutti; (ii) lo spostamento dalle politiche passive (pensioni, prepensionamenti e indennità di disoccupazione) a quelle attive quali maggiori garanzie di reddito e copertura dei rischi a tutela degli outsider esclusi dai settori più protetti, formazione, riqualificazione e innovazione.
In un contesto di maggiore affidabilità ed efficienza della pubblica amministrazione, di rimozione degli ostacoli alla concorrenza, gli imprenditori dovrebbero impegnarsi ad investire di più, accettare alti salari, seppur nei limiti della crescita della produttività. In tal modo ridurrebbero le disuguaglianze, si alimenterebbe la domanda interna e si permetterebbe uno sviluppo più solido e non ancorato alla crescita dell’export.
Tutto questo presuppone che il modello di democrazia liberale a cui aspiriamo si fondi su uno Stato autorevole, dotato di apparati burocratici imparziali ed efficienti, sul primato della legge che sottopone gli apparati burocratici a regole e controlli giudiziari efficienti e su meccanismi di responsabilità politica dei governi nei confronti della cittadinanza.
Paolo Costanzo affronta alcuni di questi temi centrali nel dibattito pubblico italiano nel suo nuovo saggio Italia al bivio: benessere diffuso o declino? edito da Bookabook disponibile in libreria e acquistabile anche sui principali store online.
Di Anna Lisa Nalin
Alla fine si è arrivati ad un accordo ai tempi supplementari, piuttosto faticoso e frutto di concessioni non indifferenti, alla Cop27 di Sharm el-Sheikh. Infatti, il documento approvato non si pronuncia su riduzione o eliminazione dell'uso dei combustibili fossili, come avevano chiesto diversi paesi.
ONU e Unione Europea non hanno nascosto la loro delusione e contrarietà.
Il risultato positivo ottenuto è che nasce il fondo per i danni provocati dai Paese ricchi nei confronti dei Paesi che hanno subito gli effetti dello sviluppo economico “senza limiti per la tutela dell’ambiente e delle popolazioni coinvolte”, messo in atto da pesanti processi di industrializzazione.
In questo modo, almeno, la Cop 27 ha sancito il principio “loss and damage”: una presa di coscienza sulle responsabilità “di chi” e “da cosa” è stata ed è causata l’emergenza ambientale, l’inquinamento e il surriscaldamento del pianeta.
Prendendo ancora quel che c’è di buono nell’accordo: viene salvato l'obiettivo di contenere il riscaldamento globale entro 1,5 gradi dai livelli pre-industriali. Un impegno fondamentale, anche se forse solo “ideale”, in ogni caso un passo in avanti rispetto alla Cop26 di Glasgow dello scorso anno.
Il documento, tuttavia, chiede soltanto la riduzione della produzione elettrica a carbone, non l'eliminazione.
Il punto cruciale è il seguente: si riconosce che per l'obiettivo di 1,5 gradi è necessaria una riduzione delle emissioni del 43% al 2030 rispetto al 2019. Ma questo non basta: con gli attuali impegni di decarbonizzazione siamo lontanissimi dal target visto che il taglio di emissioni sarebbe solo dello 0,3% al 2030 rispetto al 2019.
Altro punto positivo: è stata ribadita l'importanza della transizione alle fonti rinnovabili e si auspica l'eliminazione dei sussidi economici alle fonti fossili.
Che dire ancora?! Qualcosa si è mosso ma non si è certo voluto prendere atto che la crisi climatica chiede agli Stati, alle istituzioni e ai cittadini del mondo molto più impegno per i processi di mitigazione a adattamento necessari al raggiungimento di “emissioni 0 nel 2050” e necessari ad evitare i disastri ambientali, gia in corso, ma che potranno essere ancora più devastanti e distruttivi nei prossimi immediati decenni.
Questa è l’emergenza sulle emergenze: la crisi climatica.
Di Benedetto Della Vedova
Leggo di una tassa sulle consegne a domicilio (Amazon tax) per favorire il commercio di prossimità. Un’idea sbagliata: le consegne a domicilio sono ormai un servizio irrinunciabile, avvantaggiano chi vive nelle aree interne e le persone con scarsa mobilità.
Quanto all’idea di penalizzare furgoni e furgoncini, più o meno inquinanti: siamo sicuri che, specie fuori dai centri urbani, il traffico di auto che raggiungono negozi e centri commerciali inquini meno?
Le piattaforme del commercio online devono pagare le tasse dove producono gli utili, non devono assumere posizioni di monopolio, rispettare le regole e le leggi sul lavoro lungo tutta la filiera, ma sono un pezzo della economia contemporanea e non un nemico da colpire.
Intervista di Francesca Del Boca
Parla a Fanpage.it il segretario nazionale di +Europa. “Il candidato migliore? Era Carlo Cottarelli”. E adesso? “Si sta cercando di trovare un nome che possa aggregare”. Ma senza il Movimento 5 Stelle: “Questione di lealtà politica”. Il punto è sempre e solo uno. "Non con i Cinque Stelle".
Interviene nel caos Regionali 2023 in Lombardia anche Benedetto Della Vedova, deputato e segretario nazionale di +Europa. E, nel bel mezzo della discussione che da giorni anima il centrosinistra lombardo, avvisa l'alleato di coalizione (ovvero il Partito Democratico).
Capitolo primarie per definire il candidato di centrosinistra come presidente di Regione Lombardia. Vale la pena farle? Non è tardi?
Le primarie di coalizione sarebbero di fatto primarie di un partito solo, visto che alla fine contano i numeri. Mi sembra abbia più senso, e sia più logico, che le forze che vogliono formare una coalizione scelgano quello che, insieme, reputano il candidato migliore. La candidatura di D'Amato in Lazio, ad esempio, che raccoglie il fronte di sostegno ampio formato da Pd, Terzo polo e +Europa, mi pare il modo efficace di procedere.
Senza Movimento Cinque Stelle.
Non per settarismo, ma perché bisogna avere lealtà politica. Siamo usciti da una campagna elettorale che ci ha visti contrapposti, mi sembra giusto. Questo per noi è un punto fondamentale.
Meglio il Terzo polo con Letizia Moratti?
No. La candidatura di D'Amato è appoggiata dal Terzo polo, ma è una candidatura maturata tra alleati. La Moratti è stata imposta come prova di forza muscolare, come fatto compiuto. E ancora: D'Amato era un assessore di Zingaretti. La Moratti a quindici giorni fa è stata l'assessore e la vicepresidente di Fontana, in predicato per fare il ministro nel governo Meloni.
La Lombardia non ha il suo D'Amato, quindi?
C'era un nome capace di ottenere quell'effetto unificante, in Lombardia: era quello di Carlo Cottarelli. Ma tutto è precipitato a favore di Letizia Moratti, non capisco perché. Di sicuro è un nome di spicco in Lombardia, sì, ma per la destra. Gli elettori lo sanno, che fino a pochi giorni fa era nella giunta Fontana. E di conseguenza le forze di opposizione a Fontana non possono abbracciare una che fino a poco fa lo sosteneva.
Prima l'autocandidatura di Maran alle primarie, poi il nome di Majorino come possibile candidato unitario… il Pd che strategia sta seguendo in questo momento?
Si sta cercando di capire se c'è un candidato che possa aggregare e che sia in grado di fare la miglior campagna elettorale. Quando avremo scelto un candidato comune, se sarà possibile, ritardi e tentennamenti si supereranno.
Lei è disponibile a candidarsi?
Non mi autocandiderò. Ma, se me lo dovessero chiedere, ci penserò.
Mozione accolta come raccomandazione:
- Decriminalizzazione di tutto il lavoro sessuale
Intervista di Riccardo Magi a Il Riformista
Il deputato Riccardo Magi, Presidente di +Europa, è stato il primo parlamentare italiano a partecipare a una missione di salvataggio in mare: quando si imbarcò sulla Open Arms al Governo c'era Gentiloni e Minniti era agli Interni. Poi è salito anche sulla nave Diciotti e sulla Sea Watch di Carola Rackete. Oggi denuncia: "Il decreto Piantedosi-Salvini-Crosetto è illegale perché non contrasta con la normativa nazionale".
Onorevole Magi qual è il problema del decreto interministeriale del Governo a firma Piantedosi, Crosetto e Salvini?
Tutti si stanno concentrando sul suo contrasto col diritto internazionale: e questo è giusto. Ma quello che non viene sufficientemente sottolineato è che questo atto amministrativo è in contrasto con la stessa legge italiana, ossia il Testo unico sull’immigrazione. Esso recita in maniera molto chiara: "Lo straniero rintracciato in occasione dell'attraversamento irregolare della frontiera interna o esterna ovvero giunto nel territorio nazionale seguito di operazioni di salvataggio in mare è condotto per le esigenze di soccorso e di prima assistenza presso appositi punti di crisi allestiti nell'ambito delle strutture (...) Presso i medesimi punti di crisi sono altresì effettuate le operazioni di rilevamento fotodattiloscopico e segnaletico". Si tratta di una condotta imposta dalla legge italiana e non può essere superata da un atto amministrativo.
Quindi dov'è lo scandalo?
E' che questo Governo, che ripete in maniera quasi ossessiva la parola "legalità" tra norma anti-rave e politiche migratorie, è il primo a non rispettare la norma italiana. Altra questione molto grave evidenziata nel decreto interministeriale è che da parte delle ong non ci sarebbe stato un coordinamento e scambio di informazioni con le autorità italiane. Quando ero sulle navi delle ong invece rimasi molto colpito dal fatto che comunicavano ogni ora con le autorità italiane in merito alle operazioni. Il problema, semmai, è che dal 2017, dall'anno del Memorandum Italia Libia, sono le autorità italiane a non rispondere più. E poi ultima cosa: la portata di questi salvataggi rappresenta solo il 15% degli arrivi. Gli altri, la maggior parte, arrivano in maniera autonoma con dei barchini o vengono salvati dalla guardia costiera o di finanza. Quindi tutta questa azione del Governo è pura propaganda.
Le ragioni?
C'è un approccio ideologico e volto a mettere in scena un braccio di ferro con l'Europa, a creare una situazione di stallo. Ovviamente tale scenario è controproducente per il Governo che ne pagherà le conseguenze.
Perché?
E' evidente che le persone che sono rimaste sulla nave, dopo quella discrezionale cernita fatta con criteri fantasiosi, non ripartiranno assolutamente a bordo di quella nave. I comandanti sanno che dalla loro parte hanno il diritto italiano e quello internazionale, così come le sentenze sul caso Rackete che non lasciano dubbi. Inoltre, cinque giorni fa, il Governo aveva incassato la disponibilità da parte della Germania e della Francia a condividere l'accoglienza di parte dei migranti. Sarebbe stata anche una soluzione politica sulla base della quale ripartire da un punto di vista dei negoziati a livello europeo per ottenere un meccanismo di redistribuzione e solidarietà un pò più stabile.
Da destra si dice sempre che l'Italia è lasciata sola ad affrontare la questione migratoria.
Questo lo si sostiene evidentemente senza leggere i dati, per alimentare anche una inutile e dannosa propaganda. Nel 2021 si sono registrati in Italia 144.862 rifugiati: i richiedenti asilo sono stati 53.610. In Francia i rifugiati erano 499.914: i richiedenti asilo 120.685. In Germania i rifugiati erano 1.255.694: i richiedenti asilo 190.545. E poi vorrei ricordare che nel momento in cui siamo stati più vicini a modificare il regolamento di Dublino alla fine del 2017, ad opporsi sono stati i Paesi di Visegrad, ossia gli alleati dell'attuale Governo italiano.
Il Ministro della Giustizia Nordio ha detto: " La selezione dei migranti non è fatta in base ai loro interessi ma a quelli degli scafisti che li portano. I poveri tra i poveri, vecchi, malati, moribondi, rimangono lì".
Queste parole sono sconcertanti, soprattutto se pronunciate da un giurista che sostiene di essere un liberale. Vede, c'era una vecchia regola anche dal sapore liberale, una regola virtuosa nella formazione dei Governi, ossia di non far fare mai il Ministro dell'Interno ad un prefetto e quello della Giustizia a un magistrato.
+Europa parteciperà all'iniziativa per la pace di domani, sabato 5 novembre, all'Arco della Pace a Milano.
Manifesteremo con convinzione la nostra solidarietà al Popolo Ucraino vittima di una aggressione da parte della Russia di Putin che ha il solo obiettivo di espandere la sua area di influenza, di estendere la democrazia illiberale in Europa e di disgregare l'Unione Europea”. Lo afferma Paolo Costanzo, Coordinatore del Gruppo Milanese.
“Diciamo sì alla difesa del popolo ucraino aggredito e privato della sua sovranità. Chiediamo a tutte le forze politiche democratiche del Paese di sciogliere ogni ambiguità e di non tentare di indebolire il sostegno del Parlamento verso l'Ucraina e di non attenuare l'opposizione al disegno del Presidente Putin”, prosegue Simona Viola membro della Segreteria di + Europa.
“La libertà la si apprezza quando la si perde, diamole il giusto valore”, conclude Paolo Costanzo
Intervista di Benedetto Della Vedova a Libero
Deluso da Carlo Calenda, che ha «spifferato» a Bruno Vespa la notizia dei finanziamenti dati da George Soros a +Europa prima che assieme ad Emma Bonino li rendessero pubblici. Orgoglioso di quella donazione da un milione e mezzo di euro ricevuta dal finanziere ungherese, «uno che certamente non ha niente da chiederti in cambio». La versione di Benedetto Della Vedova, segretario di +Europa, è diversa da quella che il suo ex alleato ha raccontato a Vespa: di vero, spiega, ci sono i soldi, non la contropartita politica.
Calenda racconta che Soros ha posto come condizione la vostra partecipazione ad un «listone antifascista» finalizzato a fermare il centrodestra guidato da Giorgia Meloni. Interpellato da Vespa, lei ha detto che il sostegno di Soros era «disinteressato». Che significa? Che accordo avevate con Soros?
«Calenda vaneggia, ai limiti della diffamazione. Non c'è mai stata nessuna contropartita, né palese né occulta, per il sostegno ai candidati di +Europa da parte Soros, bensì una nota, consolidata e duratura condivisione dei valori politici liberali e democratici e una comune visione europeista fondata sui diritti umani e civili e lo stato di diritto. La cosa del "Listone antifascista" è una pura invenzione».
È finita male, ma sino a poco prima i vostri partiti sembravano a un passo dalla fusione. Cos' è successo?
«Più Europa ed Azione si erano federate nel gennaio 2022, lontano dallo scioglimento delle Camere. Una volta caduto Draghi abbiamo valutato cosa fosse meglio fare. Insieme abbiamo negoziato e sottoscritto un accordo con Enrico Letta, che sostanzialmente fu scritto da Calenda stesso: un'alleanza politica imperniata sull'europeismo anti-Orban e anti-Putin, oltre che sulla continuità con il buon governo di Draghi e una presentazione comune nei collegi, in modo da contrastare meglio Meloni e Salvini, visto che la legge elettorale è maggioritaria per oltre i due terzi. In quei giorni Calenda rivendicava la scelta, spiegando che bisognava impedire la deriva "venezuelana" dell'Italia. Poi ha cambiato idea e non ho mai capito perché».
Un'idea delle sue ragioni se la sarà fatta.
«Noi abbiamo rispettato l'accordo sottoscritto per convinzione. E certamente non abbiamo fatto la scelta più conveniente, visto che la sfida per il 3% era da brividi e che con il terzo Polo in campo i collegi diventavano insicuri. Mi viene da pensare che Calenda abbia cambiato idea perché pressato dai suoi finanziatori, ma sarebbero fatti suoi».
Calenda sapeva del finanziamento che avevate ricevuto da Soros. Glielo aveva detto lei?
«Abbiamo parlato una sola volta di budget, per dieci minuti, nella fase in cui, dopo l'accordo con Letta, ragionavamo sulla campagna elettorale comune di +Europa/Azione. Gli dissi che avremmo fatto la nostra parte con i nostri finanziatori e i nostri candidati e lui mi chiese se c'era anche Soros, che ci aveva notoriamente sostenuto anche in passato. Non avendo nulla da nascondere, ovviamente gli dissidi sì. Dopo tre o quattro giorni lui ci comunicò che si ritirava dal patto con il Pd, per fare poi l'accordo con Renzi, nonostante avesse detto cento volte che non avrebbe mai fatto nulla con lui, per via dell'Arabia Saudita e della sua presunta inaffidabilità. Da allora non ci siamo più visti e sentiti».
Ora ha avuto sue notizie, tramite le anticipazioni del libro di Vespa.
«Quando Vespa mi ha interpellato mi sono chiesto chi avesse spifferato in anticipo la notizia, ma non pensavo davvero fosse stato Calenda e francamente mi spiace per lui: non è certo un comportamento da leader. Tempo qualche giorno e quei contributi sarebbero stati resi pubblici nei modi e tempi della legge, come sempre abbiamo fatto, rivendicando il sostegno di chi crede nella nostra azione politica liberale ed europeista. A partire proprio da Soros, che anche qui voglio ringraziare non solo per +Europa, ma perché sostiene in modo trasparente battaglie liberali sui diritti delle minoranze, sulla libertà di stampa, sui diritti civili e sull'antiproibizionismo. Lo avete scritto voi, peraltro: la notizia dei nostri rapporti con Soros è trita e ritrita».
Resta il fatto che la legge vieta ai partiti di ricevere finanziamenti da «persone giuridiche aventi sede in uno Stato estero non assoggettate a obblighi fiscali in Italia» e proibisce di accettare donazioni superiori ai centomila euro. Come ha fatto Soros a dare un milione e mezzo di euro a +Europa?
«Come le dicevo, alcuni nostri candidati hanno chiesto e ricevuto direttamente un contributo sui conti dei mandatari elettorali. In modo legittimo, trasparente e pubblico. Dico di più: rivendicato politicamente».
Intervista di Emma Bonino a Il Corriere della Sera
Emma Bonino come vede il destino dei diritti civili con questo governo?
«Non vedo nessuna luce».
Molti di questi diritti sono in capo della Famiglia, della Natalità e delle Pari opportunità che è stato affidato a Eugenia Roccella. Lei la conosce, vero?
«L’ho conosciuta negli anni Settanta quando faceva le battaglie con i radicali».
Avete fatto battaglie insieme?
«No. Tra l’altro lei era molto più politicizzata di me. Militava nel Movimento di liberazione della donna, creato all’interno del Partito radicale, nel tempo in cui io arrivavo a Roma della provincia con la fissazione dell’aborto clandestino».
Anche la ministra Roccella ha fatto le battaglie per l’aborto. E adesso continua a dirsi femminista...
«Per fortuna il femminismo non è un sindacato».
Cosa vuole dire?
«Ognuna ha il suo progetto di vita. Comunque qualsiasi siano le sfaccettature del femminismo, i diritti delle donne, a cominciare da quello dell’aborto, hanno una caratteristica ben precisa che mi pare che Eugenia Roccella proprio non abbia. Però voglio dire una cosa».
Cosa?
«Non apprezzo per niente gli attacchi personali a lei: è semplicemente fedele interprete della presidente Meloni. Quello che fa più scandalo è che da una giovinezza radicale sia passata ad una maturità conservatrice per non dire reazionaria».
Pensa che si occuperà della Famiglia tenendo fuori tutte le altre famiglie?
«Si si nel suo ministero la signora Roccella ha già cominciato a parlare di famiglia al singolare. Del resto come Giorgia Meloni lei pensa che la famiglia si fatta da una mamma e un papà, magari con due pupi, meglio se uno maschio e una femmina».
Nel 2016 Roccella si battè per fare un referendum per abolire le unioni civili. Tema che possa agire in qualche modo su quel fronte?
«Temo che i nuovi diritti civili verranno mesi in un cassetto e che se ne riparlerà in un’altra epoca».
Però Giorgia Meloni ha detto che non toccherà i diritti esistenti.
«Si, appunto, questo vuol dire che si tornerà indietro. Mi sono sgolata per anni a dire che i diritti civili sono una casa fragile che vanno coltivati, curati, difesi e promossi ogni giorno perché se non ti svegli una bella mattina ti svegli e non li hai più. E questo è quello che sta succedendo».
Anche per la legge 194? E’stato detto in tutti i modi che non verrà toccata.
«Ma non c’è bisogno di dire di non cambiare la legge in Parlamento. Si può svuotarla di contenuti e renderla di fatto inapplicabile. Poi rimarranno fermi tutti gli altri diritti come lo ius scholae, figuriamoci l’eutanasia, la cannabis neanche a dirlo. E poi sono molto spaventata per i diritti dei migranti».
Cosa la spaventa?
«La dichiarazione di Giorgia Meloni sugli hotspot in Libia. Non capisco: la scelta su chi può venire o non venire la fanno i libici? Oppure mandiamo noi del personale? E questo personale chi lo protegge?. Mi sembra solo un pericoloso slogan. Non dobbiamo stare zitti».
Cosa fare?
«Penso ad una mobilitazione della società civile. Non dobbiamo stare zitti e dire che va bene così. I diritti civili sono stati un po’ trascurati dalla società che si è ridotta a risolverli da se».
Che vuole dire?
«Chi ha i soldi può andare a far valere i suoi diritti all’estero: in Svizzera a Barcellona, a Londra, dove già esistono».
Torniamo agli anni Settanta. Eugenia Roccella era una leader radicale?
«Stava in quel gruppo del Movimento di liberazione della donna. Non l’ho mai pensata come una leader».
Era legata a Marco Pannella?
«Marco era molto legato a suo padre Franco».
Da quanto non la sente?
«Non l’ho mai più sentita da allora».
Vorrebbe dirle qualcosa?
«Non ho niente da dirle».
La ministra della Famiglia, natalità e Pari opportunità, Eugenia Roccella, è stata una radicale, ha avuto giovinezza radicale, e poi ha cambiato idea e riflessioni. Non da oggi, non da ieri: la ricordo su Eluana Englaro, nel 2009, quando disse che «abbiamo la libertà di fare qualunque cosa del nostro corpo, ma non il diritto: se considero che suicidarmi è un diritto, è giusto che nessuno blocchi più nessuno dal suicidarsi», ed era sottosegretario al Welfare; la ricordo sulla procreazione assistita. Oggi, incarna perfettamente la policy e l’esposizione del premier Giorgia Meloni e pertanto, per me, è un’avversaria da rispettare e da combattere. Non apprezzo, tuttavia, l’accanimento su di lei: abbiamo davanti a noi un esecutivo che non sarà aperto sui diritti, e non possiamo sperare di affrontarlo con insulti e attacchi continui. Dobbiamo, invece, attrezzarci per lottare, adeguando la lotta al rispetto.
Ho incontrato Eugenia Roccella pochissime volte, quando entrambe frequentavamo il Partito Radicale, negli anni Settanta: io ero molto attiva nelle battaglie per l’aborto; lei faceva già parte del Movimento di Liberazione della donna. Ed era, come tutte le attiviste di quel gruppo in quegli anni, molto preparata e accurata. Roccella ha scritto ieri sulla Stampa che, all’epoca, nelle riunioni del partito sull’aborto, le femministe contestavano ai radicali di voler tradire il loro slogan, «nessuna legge sul nostro corpo». I miei ricordi sono diversi. Penso a Mauro Mellini, che anziché dire per intero «aborto libero e gratuito», lo slogan di radicali e femministe, si fermava a «libero», ma non ho in mente altre divergenze o contestazioni. Certo, nel movimento femminista ci sono sempre state anime diverse, pensieri diversi, ma quando l’obiettivo era chiedere che venisse legalizzata l’interruzione volontaria di gravidanza per liberarci dalla piaga dell’aborto clandestino, ci fu unità anche con chi pensava che abortire fosse il modo più invasivo per garantire alle donne il diritto di scegliere come e se diventare madri.
Non capisco cosa intendano, Roccella e Meloni, quando dicono di non voler toccare la legge 194 e di voler, tuttavia, garantire anche il diritto a non abortire: il diritto non è mai un obbligo, pertanto chi non vuole abortire, non abortisce, così come chi non vuole divorziare, non divorzia. C’è un unico principio da tenere fermo, quando si riprende la discussione sulla vita e sul momento in cui si comincia a essere persone: le donne devono poter scegliere la maternità. Il feto è vita? Sicuramente. Ma anche il sangue lo è.
Non capisco nemmeno cosa significhi che l’aborto è il «lato oscuro della maternità», come ha scritto Roccella: per alcune donne è doloroso, per altre no; per alcune è una scelta obbligata da condizioni esterne, per altre un fatto intimo. Perché mai lo Stato dovrebbe sindacare ed entrare così a fondo nella vita delle cittadine? La 194 è stata una legge di compromesso, fatta per evitare il referendum e pure per consentire alla Dc di votare contro, ma senza strapparsi le vesti. In alcune sue parti contiene dei controsensi: stabilisce, per esempio, che abortire in una struttura pubblica non è reato, mentre lo è farlo in una struttura privata, che è come dire che rubare non è reato in una piazza, ma è reato rubare in un appartamento. Ed è ipocrita la parte in cui stabilisce che una donna può abortire se è povera o in pericolo di vita: nessun consultorio può davvero verificare lo status economico di una paziente. Sono alcuni degli esempi che rendono quella legge, a 40 anni dalla sua approvazione, bisognosa di una revisione, ma quella revisione non può avvenire adesso, con questo governo in carica: rischieremmo di portarla ulteriormente indietro.
Ha scritto poi Roccella che «l’aborto non è un diritto ma la parte oscura della maternità», e ancora non capisco cosa intenda. Non c’è niente di oscuro nel disporre autonomamente del proprio corpo: è un diritto civile e sociale. L’errore più grave, in questi anni, anche a sinistra, è stato rimarcare una differenza tra diritti civili e diritti sociali, perché è una differenza che non esiste. Un uomo non è soltanto un lavoratore: è un padre, un marito, un fidanzato, un corpo che deve poter decidere quando morire.
Di Giordano Masini
A proposito del dibattito sulla sovranità alimentare, e per chi dice che si tratta di un concetto progressista “espropriato” dalla destra. No, neanche per idea. Lasciando perdere destra e sinistra, la sovranità alimentare resta un miraggio pericoloso, in tutte le sue possibili declinazioni, anche quelle che pretendono di avere come obbiettivo l’equità sociale. Infatti la tutela di un modello fondato sulla produzione di piccola scala e il suo isolamento forzato dal mercato globale può essere una prospettiva affascinante concettualmente, ma è la via maestra per un disastro economico e sociale. Si tratta, nella sostanza, del contrasto all’innovazione e allo sviluppo tecnologico delle aziende agricole e della conservazione di sistemi produttivi obsoleti e inefficienti. Come? Con i soldi pubblici, essenzialmente. Si chiama corporativismo, anche se la definizione viene dalla Via Campesina.
E infatti cosa propone stamattina il Ministro della sovranità alimentare sulle colonne di Repubblica? Di garantire i produttori con contratti equi finanziati dal PNRR per evitare la corsa dei prezzi che oggi non copre i costi alla fonte. Capito bene? Secondo il Ministro Lollobrigida, cognato della Presidente del Consiglio, i fondi del PNRR (ovvero dei contribuenti e dei risparmiatori europei che saranno felicissimi di saperlo) dovrebbero essere usati non per innovare il sistema produttivo e renderlo più solido e resiliente, ma a conservarlo così come è, perché così come è evidentemente va bene. Un messaggio pericolosissimo (benché ovviamente molto popolare tra gli agricoltori sia del primo che del terzo mondo), perché esenta i produttori dalla responsabilità di fare scelte economiche razionali attraverso la garanzia di compensazioni pubbliche.
E dopo il corporativismo, l’altra gamba che regge il concetto di sovranità alimentare è il protezionismo commerciale: per impedire che un consumatore possa scegliere un prodotto con un rapporto qualità/prezzo migliore bisogna gonfiarne artificialmente il prezzo attraverso i dazi, o ostacolarne la diffusione attraverso suggestive mistificazioni ideologiche come il km zero o la filiera corta, che sono due modi diversi per definire la stessa cosa: il protezionismo. Per fortuna propositi di questo tipo sono incompatibili con le regole del mercato comune, ma la separazione delle comunità agricole dal mercato globale è proprio uno dei propositi dei fautori della sovranità alimentare, anche in salsa terzomondista. Se si leggono le definizioni ufficiali (come quelle della FAO) o “de sinistra” della sovranità alimentare ci si ritrova, magari con altre parole, tutto questo.
Ps. non c’è regalo migliore alle controparti commerciali dei produttori agricoli, a cominciare dalla grande distribuzione, che favorire la frammentazione e il nanismo delle imprese.
Di Alessandro Giovannini
Il procedimento di valutazione ambientale sul rigassificatore di Piombino si è concluso per la sua realizzazione. Il comitato nazionale del ‘si’ accoglie con favore l’esito del procedimento, considerando il lavoro compiuto da tutti gli attori frutto di serio approfondimento scientifico e valutazione oggettiva dei dati.
La ragionevolezza ha prevalso mettendo in ulteriore risalto la pericolosità della propaganda e la strumentalizzazione delle istituzioni territoriali.
La scelta politica delle destre locali è uscita perdente, chiuse come sono in strategie di piccolo cabotaggio, incuranti delle esigenze italiane e contrarie a quelle europee sulla autosufficienza dal gas russo. Putin e i putiniani di complemento oggi non ridono!
Di Benedetto Della Vedova
Nell’ultima conferenza stampa di Mario Draghi da Presidente del Consiglio c’erano tutte le buone ragioni per aver sostenuto e partecipato con grande convinzione al suo governo. Ma soprattutto c’erano le ragioni per cui abbiamo fatto e per cui serve ancora…+Europa. Grazie Presidente.
+Europa, nelle persone del Segretario Benedetto Della Vedova e della tesoriera Maria Saeli, ha concluso un accordo transattivo con Alexander Schuster ed Elvis Colla, che ha posto fine a un contenzioso avviato avanti al Tribunale di Roma. L’accordo segue l’ordinanza cautelare del tribunale civile di Roma in merito al ricorso proposto da Schuster e Colla ed è stato concluso prima delle elezioni.
Secondo la transazione il congresso biennale di +Europa sarà convocato entro dicembre 2022, si celebrerà entro il mese di febbraio 2023 e sarà adottato un regolamento che preveda la partecipazione paritaria nell’organo di garanzia congressuale dei due ricorrenti e/o persone da loro designate.
+Europa, ribadendo a norma di statuto il carattere individuale e diretto delle iscrizioni, redigerà entro la fine del 2022 anche un regolamento che disciplinerà l’accesso all’elenco degli iscritti per i componenti degli organi statutari e per gli iscritti stessi che ne facessero motivata richiesta.
In ragione dell’accordo e della somma riconosciuta a Elvis Colla e Alexander Schuster, questi hanno rinunciato al giudizio civile e si sono riservati di donare il 70% dell'importo pattuito al Partito ove i principi ispiratori enunciati nello stesso trovino ampia attuazione.
+Europa ha, a propria volta, rinunciato a ogni azione penale e civile nei confronti di Alexander Schuster per le dichiarazioni riportate in un articolo del Giornale del 31 maggio 2022.