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Matteo Messina Denaro, la politica degli anniversari in una latitanza durata trenta anni

Di Palmira Mancuso

Il dovere dell’analisi, in un’epoca di massimalismi che non hanno risparmiato neppure i grandi temi del giustizialismo e del garantismo, è fardello della politica. Almeno quella che non ha ancora delegato alla magistratura la selezione della classe dirigente, quella che non impoverisce gli strumenti legislativi per la lotta alla mafia, delegittimando a fasi alterne il lavoro delle procure. Del resto l’ultima denuncia sulla mancanza di trasparenza a proposito dell'elezione dei membri laici del Csm, che Riccardo Magi ha bollato come “ancora una volta caratterizzata dagli accordi nelle segrete stanze e nei corridoi”, con “nessuna discussione, nessuna motivazione o assunzione di responsabilita' pubblica sulle candidature” fa da scenario alle giornate in cui la classe politica e l’opinione pubblica ripercorrono con la stessa "esultanza" di trenta anni fa, la cattura di Matteo Messina Denaro. La banalità nei commenti di leader ampiamente compromessi con la storia mafiosa del nostro paese è la chiara rappresentazione di una precisa volontà: le sabbie immobili di un processo di analisi senza sconti sugli errori commessi dall’antimafia “di professione”.

La Sicilia, come dimostra ogni campagna elettorale, è ancora quella sciasciana delle metafore, più che dei complotti, e oggi che l’ultimo “mito” dietro al quale legittimare ogni patente antimafia è caduto, per ragioni che solo il tempo, i magistrati e speriamo qualche preparato giornalista potrà chiarire, non possiamo guardare al futuro senza comprendere cosa abbiamo sbagliato, senza accettare che non basta ricordare le vittime e agitare lo “spettro del padrino” che si crea una coscienza nelle scuole. Mentre la vera mafia, il famoso terzo livello, quella zona grigia di nuovi boss col master e grandi capitali, è lì che ci osserva.

Ci osserva battere le mani come scimmiette ammaestrate, come se trenta anni fa fossero ieri. E non ce lo possiamo più permettere. Non è dicendo che Matteo Messina Denaro si è consegnato che facciamo torto all’infaticabile lavoro delle forze dell’ordine, ma se in questi trenta anni le connivenze e le protezioni sono state tali da consentire persino che la fine della sua latitanza alimenti dubbi su chi della lotta alla mafia ha fatto una scienza quasi esatta, non dobbiamo avere paura di cercare la verità.

Il più grave errore di chi dalle stragi del 1992 ha nutrito l’eroismo di pochi, piuttosto che la coscienza di tutti, è quello che non possiamo ripetere. Riconoscere i vivi è più difficile che parlare dei morti: la mafia lo sa. E in questi trenta anni ha persino usato l’antimafia per confondere (vedi il processo sul Sistema Montante) per relegare ad ambiti sempre più ristretti informazioni sulle nuove strategie, sui nuovi capi, su quei “palermitani” che portano i nomi dei loro nonni, e che ora hanno chiuso il cerchio con la cattura dell’ultimo “corleonese”. Diventato troppo ingombrante e malato in una Sicilia da poco alla guida di un “nuovo” governo regionale, pronta ad amministrare nuovi i grandi flussi di denaro del Pnrr, con i grandi affari che riguardano la mobilità e lo smaltimento dei rifiuti, dove i servizi sono monopolizzati a forza di gare pubbliche d’appalto andate deserte. Senza dimenticare la sanità: non è un caso che ancora una volta nella storia della mafia sia l’elemento del ricatto e dello scambio, dai tempi di Michele Navarra (il dottore boss di Corleone che fece morire il pastorello Giuseppe Letizia) all’ex manager della sanità Michele Aiello. Dove a pagare ci sono ancora vittime senza giustizia come l’urologo barcellonese Attilio Manca, fatto suicidare dopo l’intervento a Marsiglia dell’allora latitante Bernardo Provenzano.

La lotta alla mafia non deve avere colore politico, bisogna solo sapere dove picchiare la testa.

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  • Pasquale Di Pace
    published this page in News 2023-01-18 13:48:23 +0100