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Brexit, è tornato il tempo di decidere con un nuovo referendum

di Dino Guido Rinoldi e Riccardo Sallustio

La discussione di questi giorni nel Regno Unito sulla Brexit è innanzitutto una battaglia sul terreno delle procedure parlamentari e delle regole costituzionali di non facile comprensione agli occhi di un osservatore estero.

Cerchiamo di fare chiarezza. Anzitutto, contro quanto la logica detterebbe il Parlamento britannico, a differenza di quanto fatto dal Parlamento europeo nella UE, negli ultimi tre anni e mezzo non ha dato istruzioni al governo sulle modalità e i termini della Brexit. Prima May e adesso Johnson sono ritornati a Londra con una bozza di accordo senza che né l’aula né le commissioni parlamentari avessero in qualche modo condiviso in precedenza i principi di tali accordi, la strategia negoziale o la complessa normativa di attuazione.

Il contesto è poi alquanto peculiare; infatti tale discussione avviene nel mentre il Parlamento di Westminster si appresta a votare sul programma del governo Johnson (il cd. Queen’s Speech) presentato dalla Sovrana il 14 ottobre e che quasi certamente il Premier perderà pur non conseguendone tecnicamente la sfiducia del governo da lui presieduto. Peraltro, è singolare che Johnson non abbia mai ricevuto la fiducia della Camera dei Comuni e rappresenti un governo di minoranza che è stato sconfitto nella quasi totalità delle votazioni parlamentari.

Le modalità dei prossimi passaggi parlamentari dipendono dalla recente sentenza della Corte Suprema nel caso Cherry/Miller 2 che ha talaltro sancito la necessità dello scrutinio parlamentare della legislazione sulla Brexit, dal Letwin amendment (dal nome del deputato che lo ha proposto) approvato dalla Camera dei Comuni il 19 ottobre, dalla successiva decisione di John Bercow - Speaker della Camera - di non consentire un nuovo voto sull’approvazione in via di principio dell’accordo di recesso, e dal rigetto della programme motion governativa del 22 ottobre diretta a ridurre i tempi del dibattito.

La conseguenza di tali eventi è che il Parlamento, prima di votare per la proposta di accordo di recesso raggiunta fra Johnson e UE, dovrà necessariamente promulgare, con tutti i tempi necessari e dopo aver apposto eventuali emendamenti, la proposta di legge governativa per dare attuazione formale e pratica alla Brexit (Withdrawal Bill), proposta che è stata presentata in Parlamento solo martedì 21 ottobre.

Successivamente, il Parlamento britannico dovrà ratificare l’accordo di recesso prima che la Brexit possa entrare in vigore. Solo dopo tale formale ratifica l’Unione europea avrà la necessaria certezza che l’accordo di recesso sia vincolante ed efficace.

Il 22 ottobre la Camera dei Comuni ha approvato il Withdrawal Bill al cd. second reading; ma tale approvazione ha solo una valenza politica che peraltro Johnson ha raggiunto solo grazie ad un serie di promesse non vincolanti fatte ai parlamentari laburisti su diritti dei lavoratori e protezione dell’ambiente. Siamo, in altre parole, ben lontani dal momento in cui l’accordo possa essere approvato nella sua interezza e ratificato, ratifica della quale non si può perciò avere certezza.

Né i tempi saranno serrati come originariamente richiesto dal governo Johnson: anche se il Parlamento dovesse lavorare alacremente nell’analisi del Withdrawal Bill, documento di centinaia di pagine e non facilmente comprensibile, il dibattito parlamentare sugli emendamenti nel cd. ‘committee stage’ e nel cd. ‘third reading’ porterà il processo probabilmente fino novembre inoltrato.

La discussione parlamentare sui dettagli dell’accordo di recesso e del Withdrawal Bill sarà utilizzata dall’opposizione come occasione per dimostrare al paese le lacune dell’accordo stesso (si veda ad esempio la necessità di introdurre legislazione doganale per consentire le esportazioni tra Gran Bretagna e Irlanda del Nord) e per imporre l’adesione ad una unione doganale con l’Unione europea oppure l’approvazione dell’accordo con un nuovo referendum popolare. Il governo ha invece interesse a ridurre il dibattito e così mantenere la promessa di assicurare la Brexit in tempi brevissimi.

Nel frattempo, non sono da escludersi iniziative giudiziarie da parte di ‘remainers’ o ‘leavers’ tendenti a ritardare o ad accelerare il processo di uscita. Insomma, il momento della verità è ancora da venire.

Sarà allora necessario concedere una proroga al Regno Unito quanto al termine di uscita (e ciò a prescindere sia dal gioco divertente di lettere inviate a Bruxelles da parte britannica sia dalle successive fasi intermedie che via via condurranno infine al recesso definitivo). E sarà un termine che il Consiglio europeo (rappresentativo dei Capi di Stato e di governo degli Stati membri dell’Unione) dovrà determinare in modo da rispettare la volontà del parlamento britannico e non del Primo Ministro Johnson. Il termine potrebbe anche essere quella fine di gennaio 2020 inizialmente prospettata dal Parlamento britannico nel Benn Act e non necessariamente la fine del 2020, come da altre parti preventivato. In ogni modo l’Unione non dovrebbe irrigidirsi in materia di termini (in primis è l’UE che “serve” al Regno Unito ma anche il Regno Unito “serve” all’UE), a patto di attenersi ai principi dello Stato di diritto (art. 2 del Trattato dell’Unione) e di lasciare il tempo necessario affinché la democrazia nel Regno stesso faccia il proprio corso. Si è parlato di “flexension”, ovvero di una proroga flessibile con un termine ultimo anche a metà 2020 ma riducendola laddove l’accordo di recesso fosse ratificato dal Regno Unito prima della scadenza di tale termine: si vedrà in dettaglio se questa è la strada che il Consiglio europeo intenderà intraprendere e quale sarà la risposta del Parlamento britannico.

Sennonché vanno fatti i conti con la posizione della Francia, che ha mostrato una opposizione a qualsivoglia proroga; con la necessità che andando oltre il 31 ottobre di quest’anno dovrà essere nominato pure il Commissario europeo di spettanza al Regno Unito; nonché con la presenza britannica nei processi legislativi dell’UE, con la conseguenza di poterne subire un impatto negativo su scelte politiche europee fondamentali come l’approvazione del prossimo bilancio pluriennale (2021-2027), sebbene il governo britannico non sia più presente dalla scorso settembre alle riunioni del Consiglio europeo o non participi di fatto alla formazione della politica comunitaria.

Ciò che sarebbe auspicabile nell’attuale contesto è l’indizione di un nuovo referendum, che chiami il corpo elettorale a pronunciarsi (sempre in via consultiva, come già avvenuto nel 2016 col primo referendum su “leave” o “remain”) sull’accordo di recesso concluso da Boris Johnson supportato dalla versione definitiva del Withdrawal Bill approvata dal parlamento o sulla permanenza del Regno Unito nell’UE. A differenza del referendum del 2016 questa consultazione non avrebbe ad oggetto una domanda dal contenuto vago, ma offrirebbe quegli elementi di certezza in grado di dare un chiaro indirizzo politico.

E cosa proporre in questa selva intricata di contrapposizioni fra governo britannico, parlamento e popolo del Regno, quest’ultimo a propria volta diviso in schiere contrapposte?  Diviso perché vede le giovani generazioni assai favorevoli a un orizzonte aperto di permanenza nell’UE e quelle anziane legate a miti di identità e orgoglio isolani. Diviso perché le città (Londra per prima) sono per i vantaggi derivanti dalla cooperazione multilaterale europea mentre le campagne sono prevalentemente per la rivalsa nei confronti di una percepita globalizzazione dannosa e spersonalizzante. Diviso perché le conseguenze geopolitiche derivanti dall’uscita stanno diventando sempre più chiare, e la vicinanza delle posizioni politiche del governo Johnson all’amministrazione Trump costituisce un deterrente per molti che hanno votato per la Brexit nel 2016. Diviso perché vi sono “remainers” che voterebbero “leave” solo per rispettare la volontà popolare del 2016.

Una rinnovata scelta referendaria consentirebbe una risposta popolare alla luce di quanto in quasi tre anni e mezzo evidenziato rispetto alla campagna manipolatoria del “leave” (fondata ad es. su notizie false come il recupero da parte del Regno in caso di Brexit di una montagna di sterline a vantaggio della sanità britannica), oppure riguardo alla valutazione degli effetti economici per l’isola negli anni a venire (si pensi al dato del secondo trimestre di quest’anno - quando pur l’uscita ancora non si è realizzata - di contrazione dello 0,2% del PIL, per la prima volta  dal 2012), o ancora  in termini di riduzione dei salari reali in alcuni settori, sebbene in presenza di certi vantaggi derivanti dalla svalutazione della sterlina (compensati dall’aumento del costo delle importazioni), a seguito delle incertezze del processo di uscita, incertezze e sfiducia che riguardano fra l’altro pure la riduzione degli investimenti in formazione aziendale dei lavoratori con ulteriori effetti negativi moltiplicatori.

La soluzione referendaria sarebbe preferibile a nuove elezioni politiche dal momento che il voto alle politiche è frutto di scelte su diverse tematiche e non può focalizzarsi solo sulla Brexit. E’ chiaro che il referendum non sarà la soluzione definitiva, dal momento che le divisioni profonde nel paese non possono essere eliminate in un istante, ma sarà un elemento importante in un processo di pacificazione nazionale, che prima o poi dovrà realizzarsi.

Infine, il referendum darebbe conto della necessità di dar voce al futuro del Regno Unito, consentendo di votare ai tanti giovani che non potevano votare per ragioni d’età il 23 giugno 2016 ma che ora potrebbero trovarsi a dover sopportare le conseguenze di quel voto (altrui) per un tempo capace di durare una media di 69 anni, a fronte della media di 16 del tempo che riguarderebbe gli ultrasessantenni. Ultrasessantenni che restano preziosi (tanto in UK quanto in Italia); tanto più preziosi in quanto hanno il compito di esercitare la propria responsabilità intergenerazionale nei confronti di chi quella responsabilità non avrebbe a propria volta nemmeno modo di esercitarla senza un adeguato riequilibrio (si pensi ai principi articolati dalla proposta di legge popolare italiana di +Europa sui “Figli costituenti” ma si pensi, fra l’altro, al regime pensionistico).

Nelle prossime settimane vedremo chi la spunterà quanto agli emendamenti parlamentari che mirano a chiedere, l’uno, il permanere dell’intero Regno Unito (non della sola Irlanda del Nord) nell’unione doganale europea, e il secondo l’indizione di un nuovo referendum; o se invece la spunterà il governo con l’approvazione dell’attuale accordo di recesso oppure con l’indizione di nuove elezioni politiche.

In ogni caso deve restare alto il controllo da parte dell’Italia e dell’Unione sul riconoscimento da parte del Regno Unito dei diritti acquisiti dei nostri connazionali e degli altri cittadini europei.

 

 

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